Nell’elaborato della Commissione presieduta dal prof. Marco Ruotolo sono molti gli interventi suggeriti, che spaziano in settori molto diversi e con incidenza qualitativa assai differente. Basterebbe pensare alle modifiche al Regolamento di esecuzione (d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230) e a quelle all’ordinamento penitenziario, le prime spesso tese a reiterare quanto già affermato nell’ordinamento penitenziario (v. ad es. l’art.1 e soprattutto l’art. 2 concernente il divieto di violenza fisica).
Tra i molti contenuti, che meriterebbero ampie e diffuse considerazioni, si vuole in questa sede richiamare l’attenzione sulla modifica proposta in tema di “Visite al minore infermo o al figlio, al coniuge o convivente affetto da handicap in situazione di gravità” disciplinate nell’art. 21-ter o.p.
Tale norma, introdotta nell’ordinamento penitenziario con la l. 21 aprile 2011, n. 62, è diretta a garantire una più ampia tutela ai minori figli di genitori detenuti, specie sotto lo specifico profilo del diritto alla salute, e ad assicurare la presenza materna (e paterna), consentendo al genitore di recarsi a far visita al figlio minore «in caso di imminente pericolo di vita o di gravi condizioni di salute» (si rinvia a L. CESARIS, Commento all’art.21- ter, in DELLA CASA-GIOSTRA, Ordinamento penitenziario, 6 ed., 2019, 351 ss.). L’ambito di operatività è stato poi esteso al figlio –qualunque ne sia l’età– affetto da disabilità grave accertata ai sensi dell'art. 4 l. 5 febbraio 1992, n. 104, indipendentemente dalla sussistenza del pericolo di vita o di gravi condizioni di salute. Si tratta di una estensione dovuta, a fronte dell’intervento della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 47-ter o.p. nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare anche nei confronti della madre condannata e, nei casi previsti dal comma 1° lett. b, del padre condannato, conviventi con un figlio portatore di handicap totalmente invalidante (Corte cost. 5 dicembre 2003, n. 350. Si veda altresì Corte cost. 14 febbraio 2020, n.18, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies co. 1 o. p. «nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare speciale anche alle condannate madri di figli affetti da handicap grave ai sensi dell’art. 3 comma 3» l. 5 febbraio 1992, n. 104). Seppur riferita alla detenzione domiciliare, tale decisione esplica i suoi effetti ogni qual volta si debba tutelare l’interesse del figlio a mantenere il rapporto genitoriale e a ricevere le cure parentali, «non essendo indifferente per il disabile grave, a qualsiasi età, che le cure e l’assistenza siano prestate da persone diverse dal genitore medesimo» (Corte cost. 14 febbraio 2020, n. 18 richiama proprio l’art. 21-ter o. p. quale espressione della doverosa necessaria attenzione nei confronti del figlio disabile).
La previsione è stata estesa (con l. 16 aprile 2015, n. 47) al «coniuge o al convivente affetto da handicap grave» quando ricorrono le condizioni indicate nei commi 1° e 2°, e si deve intendere riferita anche alle parti dello stesso sesso dell’unione civile, che in virtù dell’art. 1 comma 20 l. 20 maggio 2016, n. 76 sono equiparate ai coniugi e hanno, in forza del co. 38 dello stesso art. 1, i medesimi diritti riconosciuti ai coniugi.
La modifica proposta dalla «Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario», contenuta in un comma 3 aggiunto nell’art. 21-ter o. p., limita il diritto di visita «nel caso in cui persista la condizione di fatto di cui al comma 1, limitatamente alla ipotesi di avvenuto accertamento di handicap in situazione di gravità», ed in tal caso la «nuova domanda può essere riproposta non prima della avvenuta decorrenza di sessanta giorni dalla precedente esecuzione del provvedimento di visita».
Innanzitutto colpisce l’uso anacronistico del termine “handicap”: se è pur vero che nella legge n. 104 del 1992 e nell’art. 21-ter o.p. ricorre questa espressione, peraltro utilizzata anche nelle sentenze della Corte costituzionale in tema di detenzione domiciliare ordinaria e speciale prima citate, tuttavia non si può non ricordare che nella Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità, della salute del 2001 (ICF) e nelle successive Carte internazionali si parla di disabilità. E la recente l. 22 dicembre 2021, n. 227, contenente Delega al Governo in materia di disabilità, pone tra gli obiettivi la definizione della condizione di disabilità nonché la revisione, il riordino e la semplificazione della normativa di settore in attuazione degli artt. 2, 3, 31 e 38 Cost. e della normativa internazionale. In particolare, il riferimento è alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e del relativo Protocollo opzionale 1 , e soprattutto alla Strategia per i diritti delle persone con disabilità 2021-2030, adottata dalla Commissione europea (cfr. la Comunicazione della Commissione europea al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni EMPTY 2021 Un’Unione dell’uguaglianza: strategia per i diritti delle persone con disabilità 2021-2030, del 3 marzo 2021 (COM/2021/101 final)), e alla Risoluzione del Parlamento europeo sulla protezione delle persone con disabilità (adottata il 7 ottobre 2021).
Persistere nell’uso del termine “handicap” rivela, dunque, poca attenzione e soprattutto una scarsa sensibilità nei confronti di coloro che sono portatori di disabilità.
Al di là di ciò, risulta difficile comprendere l’ambito di operatività della nuova disposizione riferita al soggetto affetto da “handicap grave” «nel caso in cui persista la condizione di fatto di cui al comma 1».
È forse opportuno ricordare che l’art. 21-ter o. p. consente due opportunità ben distinte: la visita al figlio minore (di anni 18) anche se non convivente, che si trovi in «imminente pericolo di vita o [in] gravi condizioni di salute», nonché al «figlio affetto da handicap in situazione di gravità», come già si è ricordato. In quest’ultimo caso il legislatore prescinde dalla sussistenza di altre situazioni o condizioni, volendo attribuire al soggetto disabile una tutela ampia, tanto è vero che non rilevano né l’età né altre situazioni o condizioni del soggetto. Nel 2 comma si disciplina poi la possibilità per la madre reclusa (e per il padre), qualunque sia il titolo detentivo, di «assistere il figlio durante le visite specialistiche, relative a gravi condizioni di salute».
Queste opportunità sono state estese, come già si è ricordato, al «coniuge o convivente affetto da handicap grave ai sensi dell’articolo 3 comma 3» l. n. 104 del 1992.
La modifica proposta sembra riguardare solo l’ipotesi della visita di cui al comma 1, come si desume dal riferimento testuale al «provvedimento di visita».
Per quanto concerne i presupposti, nel comma 1 si prendono in considerazione 3 condizioni di fatto: l’imminente pericolo di vita, le gravi condizioni di salute e l’handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4 legge n. 104 del 1992, così che l’incipit della proposta («nel caso in cui persista la condizione di fatto») non pare utile a definire l’ambito di operatività, posto che la disciplina di favor riferita al figlio affetto da disabilità grave viene estesa nel comma 2 al «coniuge o convivente affetto da handicap grave». Si potrebbe dunque ritenere che la previsione in esame riguardi sia il figlio sia il coniuge (o convivente) affetto da disabilità.
La proposta mira, come si legge nelle “Note esplicative”, a «orientare la discrezionalità del giudice nelle ipotesi –non infrequenti– di situazioni di perduranza della condizione di handicap grave», a fronte del «problema della “frequenza” del diritto di visita».
Una siffatta previsione, che distanzia nel tempo le visite, essendo indicato un intervallo di almeno 60 giorni nella presentazione della istanza, non sembra tenere in minima considerazione la gravità della disabilità, che non è generica ma accertata secondo i parametri indicati nella legge n. 104 del 1992. Non solo, l’art. 21-ter cit. mira a tutelare situazioni connotate da gravità e da cronicità (peraltro accertate da una apposita Commissione sanitaria), così che il riferimento alle ipotesi di «perduranza» risulta poco comprensibile proprio a fronte del carattere cronico e spesso ingravescente delle situazioni di disabilità.
In particolare, per quanto concerne i figli, la modifica proposta si pone in contrasto, oltre che con i principi espressi negli artt. 29-31 Cost. volti ad assicurare la relazione parentale, con la Raccomandazione del Consiglio d’Europa «riguardante i figli di detenuti» (così è sinteticamente intitolata (si tratta, più precisamente, della Racc. CM(2018)5 del Comitato dei Ministri del Consiglio D’Europa concernente i figli di detenuti, adottata il 4 aprile 2018)), tesa a tutelare il diritto al mantenimento del rapporto genitoriale, mediante l’adozione di misure volte a consentire al genitore il rientro in famiglia, seppur per pochi giorni o solo per poche ore, in occasione di eventi particolarmente importanti per il figlio, tra i quali viene citato proprio il ricovero ospedaliero (punto 11) (si rinvia, per un commento a questo punto e in generale alla Raccomandazione, a L. CESARIS, Una nuova Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa a tutela dei diritti dei figli delle persone detenute, in Giurisprudenza penale web 2018, 5) o di situazioni o condizioni che richiedono particolare attenzione.
Una siffatta scelta risulta ancora più incomprensibile, ove si ricordi che è in discussione in Parlamento un disegno di legge volto a impedire l’ingresso e la permanenza in carcere di bambini con la madre e a garantire loro l’assistenza materna in modo pieno (cfr. la proposta di legge d’iniziativa dell’. on Siani e altri, presentata alla Camera l’11 dicembre 2019, stamp. n. 2298, approvata dall’Assemblea il 30 maggio 2022 e trasmessa al Senato il 1°giugno 2022, stamp. n. 2635), e pare muoversi in prospettiva nettamente opposta, privando il figlio affetto da disabilità grave della necessaria insostituibile presenza del genitore.
Analoghe considerazioni sul piano della tutela della sfera affettiva valgono per il coniuge e per il convivente.
L’art. 21-ter o.p. vuole offrire una tutela più ampia e rafforzata al figlio disabile, indipendentemente dall’età, e allo stesso modo al coniuge o alla parte dell’unione civile proprio in considerazione delle necessità e delle fragilità di una persona disabile specie sotto il profilo affettivo.
E non si può poi dimenticare che il mantenimento delle relazioni familiari è elemento fondamentale del trattamento rieducativo.
Con la modifica proposta si verrebbe a determinare una situazione di minorata tutela del tutto ingiustificata e immotivata nei confronti di soggetti disabili, che appare ancora più incomprensibile ove si consideri che «le gravi condizioni di salute» indicate nel 1 comma dell’art. 21-ter sono un concetto assai vago e indeterminato, suscettibile di interpretazioni assai diverse. Mentre la disabilità grave è oggetto di un accertamento regolato dall’art. 4 l. n. 104 del 1992 e consiste nella «minorazione singola o plurima [che] abbia ridotto l’autonomia personale correlata all’età in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione» (art. 3 l. n. 104 del 1992). I parametri di tale valutazione sono indicati dal legislatore e la loro sussistenza è oggetto di specifico accertamento ad opera di un’apposita Commissione medico-legale.
È opportuno ricordare che la disabilità non è una situazione eccezionale, quali quelle considerate nell’art. 30 o. p., e che con le disposizioni dell’art. 21-ter o.p. il legislatore ha voluto offrire tutela a situazioni connotate da gravità e altresì da cronicità, che determinano disabilità.
Stupisce dunque che la nuova disposizione, che comporta limitazioni nelle visite, sia destinata ad operare solo nei confronti del figlio o del coniuge disabile, non nei confronti di chi sia affetto da altre patologie gravi e croniche.
La evidente disparità di trattamento non trova giustificazione ed anzi è destinata ad acuire la situazione del familiare disabile.
Il meccanismo proposto, che prevede un intervallo di 60 giorni fra la visita fruita e l’invio della richiesta per quella successiva, pare sfuggire a ogni considerazione umanitaria oltre che medica, e pare voler rarefare nel tempo gli incontri, dato che si subordina la presentazione di una nuova domanda al decorso di almeno 60 giorni dalla visita effettuata, come già si è ricordato.
Il riferimento alla necessità di non oberare di richieste il magistrato di sorveglianza, che traspare da quanto espresso nelle “Note” esplicative, appare poco plausibile, ove si consideri che la situazione di disabilità grave risulta –come già si è osservato– da accertamenti operati dalle autorità sanitarie competenti e non è certo destinata a migliorare; ma comunque non è rimessa al magistrato di sorveglianza. Le visite ex art.21-ter differiscono dai permessi ex art. 30 o.p. proprio per le situazioni e per le condizioni tutelate.
Ma soprattutto sfugge la ragione di porre un limite temporale siffatto, non certo breve (lo si ricorda: 60 giorni), che priva il giudice della possibilità di valutare in concreto l’incidenza della presenza del familiare recluso sulla condizione e sulla situazione della persona disabile.
Sarebbe stato più opportuno e utile nonché, soprattutto, rispettoso delle persone con disabilità introdurre un meccanismo, che ̶-una volta documentato lo stato di disabilità̶̶ consentisse di fruire delle visite ex art. 21-ter senza la necessità di richiedere ogni volta l’autorizzazione al magistrato di sorveglianza e prevedesse l’intervento del giudice nei casi in cui fosse necessario rivedere la calendarizzazione delle visite in ragione di eventuali mutamenti nella situazione della persona detenuta o nella condizione del familiare disabile, o modificare le modalità di svolgimento della visita in relazione ad es. alla durata, alla necessità della scorta, al divieto di incontrare determinate persone e ad eventuali prescrizioni ulteriori.
LAURA CESARIS