7 Settembre 2024

Lo strano caso di una discriminazione di genere a sfavore della “quota blu”: il padre detenuto e l’impervio accesso alla detenzione domiciliare ovvero quando le istanze di sicurezza prevalgono sull’interesse del minore (Corte costituzionale – sent. 219/2023)

A cura di Simone Gionfriddo (Università di Pisa)

Con la sentenza in oggetto, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter co. 1 lett. b), o.p., nella parte in cui prevede tra i beneficiari della detenzione domiciliare solo la madre di prole di età inferiore a dieci anni e non anche il padre, il quale può accedere a tale misura alternativa solo qualora la madre sia deceduta o impossibilitata a dare assistenza alla prole.

1. E’ innanzitutto importante premettere come la tutela del rapporto genitoriale tra i padri detenuti e i figli minori sia una questione che nasce da lontano e che è mutata nel tempo, in quanto l’art.47-ter o.p. è stato oggetto di diversi interventi legislativi e di legittimità costituzionale.

Tale articolo è stato introdotto solo nel 1986 con la legge 663, la c.d. “legge Gozzini” ed originariamente il primo comma prevedeva tra i beneficiari della misura alternativa della detenzione domiciliare solo la “donna incinta o che allatta la propria prole ovvero madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente” e non vi era nessun riferimento al padre detenuto.

La tutela degli interessi del minore ha condotto la Corte Costituzionale 215/1990 a dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma laddove non consentiva anche al detenuto padre, nelle stesse condizioni, di usufruire della detenzione domiciliare, quando “la madre fosse deceduta o si trovasse nell’assoluta impossibilità di dare assistenza alla prole”. Seguendo un orientamento consolidato, diretto alla protezione dell’infanzia ( Corte Cost. 1/1987 “Il mancato riconoscimento, al padre lavoratore, dei benefici che, divenuta impossibile l’assistenza della madre, sono condizione e presupposto essenziale di un adeguato sostegno per il minore, impedisce invero lo stringersi dei saldi rapporti familiari che sono voluti dall’art. 29, primo comma, ostacola l’assolvimento dei compiti di assistenza alla prole che sono affidati alla pari responsabilità dei genitori dall’art. 30, primo comma; si pone in stridente contrasto con gli obblighi di agevolare l’assolvimento di tali compiti e di protezione che sono imposti al pubblico potere dall’art. 31, primo e secondo comma; disconosce la “speciale adeguata protezione” del minore che é invece a chiare lettere proclamata dall’art. 37, primo comma. É, in altri termini, proprio il complesso dei preminenti valori costituzionali che reggono la materia, ad essere lesi dalla norma de qua, che non tiene in adeguata considerazione le esigenze della famiglia nella sua interezza, ed in particolare quelle del soggetto che – in seno ad essa – é bisognoso della maggior tutela e della più accorta protezione: il minore. L’art. 7 della l. n. 903 del 1977 deve perciò essere ritenuto costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non ha previsto la possibilità per il padre lavoratore di avvalersi del diritto ai riposi di cui all’art. 10 della legge 9 dicembre 1971 n. 1204 e del diritto di astenersi dal lavoro di cui agli artt. 4 lett. c) della legge predetta e 6 della legge 31 dicembre 1977 n. 903, ove tali diritti non possano essere esercitati dalla madre ricorrendo le situazioni di fatto delle quali era causa nei giudizi principali: sta a dire, il decesso o la grave infermità della lavoratrice madre, con conseguente impossibilità di accudire alla prole”. ), la Corte ha riconosciuto che l’art. 47-ter “precludendo all’infante la possibilità di ricevere l’assistenza del padre detenuto” quando la madre vi sia impossibilitata “viola direttamente anche la tutela costituzionale che l’art. 31 della Costituzione accorda all’infanzia”. Il legislatore ebbe poi a recepire letteralmente le indicazioni della Corte, introducendo anche per il padre la possibilità di scontare la pena nel luogo del proprio domicilio, ma, per l’appunto, solo quando <<la madre è deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole>>.

Infine, il legislatore è intervenuto nel 1993 e nel 1998 elevando l’età del minore rispettivamente a cinque e dieci anni al fine di ampliare la gamma dei beneficiari e introducendo il requisito dell’esercizio della “potestà genitoriale”, ma solo con riferimento al padre e non anche alla madre.

 

 

  1. Passando ora ad analizzare la questione di legittimità costituzionale, nel caso di specie, il giudice a quo esprimeva i suoi dubbi proprio con riferimento alla differente disciplina relativa alla concessione della detenzione domiciliare ordinaria alle madri e ai padri di bambini sino a dieci anni, prevista rispettivamente dalle lettere a) e b) dell’art. 47-ter, co. 1, ord. penit.
    Come abbiamo visto poc’anzi, mentre le madri che convivono con il proprio figlio possono essere ammesse alla detenzione domiciliare nel momento in cui devono scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a quattro anni (lettera a), i padri possono accedere a tale misura alternativa soltanto se esercitano la responsabilità genitoriale e risulta che la madre sia deceduta, ovvero «assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole» (lettera b).
    A parere del rimettente, tale disciplina violerebbe l’interesse del minore a mantenere un rapporto continuativo con entrambi i genitori, fondato sull’art. 31, co. 2, Cost., declinabile quale vero e proprio «diritto inviolabile alla “bigenitorialità”».
    Inoltre, la disciplina censurata risulterebbe intrinsecamente incoerente, contraddittoria e illogica – e dunque irragionevole al metro dell’art. 3 Cost. – privilegiando ingiustificatamente il rapporto tra madre e figlio rispetto a quello tra padre e figlio. (Mag. Sorv. Cosenza, ord. 12 dicembre 2022, cit).

La Corte, in questa decisione, chiarisce che il principio dell’interesse “superiore” del minore «impone sì una considerazione particolarmente attenta degli interessi del minore in ogni decisione – giudiziaria, amministrativa e legislativa – che lo riguarda, ma non ne assicura l’automatica prevalenza su ogni altro interesse, individuale o collettivo».
In particolare, nell’ambito della relazione tra genitori condannati a pena detentiva e figli minori, la Corte ha costantemente ribadito che «l’interesse del minore non forma oggetto di una protezione assoluta, insuscettibile di bilanciamento con contrapposte esigenze, pure di rilievo costituzionale, quali quelle di difesa sociale, sottese alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore in seguito alla commissione di un reato».
In effettiprosegue il giudice delle leggi – «a meno di sostenere che l’esecuzione di una pena detentiva sia sempre costituzionalmente illegittima allorché la persona interessata abbia un figlio minorenne, è giocoforza ammettere che la compressione dell’interesse di quest’ultimo al rapporto con il genitore detenuto o internato costituisca, a certe condizioni, una conseguenza inevitabile, e costituzionalmente non censurabile, dell’esecuzione della pena».
D’altra parte, «la speciale importanza, dal punto di vista costituzionale, degli interessi del minore esige che i pur rilevanti interessi sottesi all’esecuzione della pena debbano, di regola, cedere di fronte all’esigenza di assicurare che i minori in tenera età possano godere di una relazione diretta almeno con uno dei due genitori». L’esigenza in questione è soddisfatta, secondo la Corte, dall’attuale disciplina, prevista dall’Ordinamento penitenziario, della detenzione domiciliare ordinaria e speciale.

In questo punto della decisione si può già notare un segnale interpretabile come un “passo indietro” da parte del giudice costituzionale. Si parla, infatti, di interesse del minore in tenera età a «godere di una relazione diretta almeno con uno dei due genitori» . Si fa menzione di una «basilare esigenza» di tutelare l’interesse del minore di essere accudito da almeno uno dei genitori e non da entrambi, nonostante l’interesse nel ricevere cure da entrambi i genitori sia stato sempre riconosciuto dalla stessa Corte (Corte cost., n. 105 del 2023; Id., n. 102 del 2020; Id., n. 211 del 2018; Id., n. 174 del 2018; Id., n. 76 del 2017; Id., n. 17 del 2017; Id., n. 239 del 2014. V., altresì, Corte cost., n. 7 del 2013 e Id., n. 31 del 2012 ) , e evidenziato anche nella presente decisione (§ 4.2. considerato in diritto )

E’ la stessa Consulta infatti che menziona le norme che sia nell’ordinamento costituzionale interno, sia nell’ordinamento internazionale riconoscono e tutelano il diritto del minore alla bigenitorialità.

Sul piano costituzionale il diritto in questione costituisce una specifica declinazione del più generale principio dell’interesse “preminente” del minore, espressione utilizzata solitamente per tradurre il «principio secondo cui in tutte le decisioni relative ai minori di competenza delle pubbliche autorità, compresi i tribunali, deve essere riconosciuto rilievo primario alla salvaguardia dei “migliori interessi” o dell’“interesse superiore” del minore». Tale principio si considera radicato tanto nell’art. 30, quanto nell’art. 31 Cost.
Il diritto alla bigenitorialità poi, come ricorda la Corte stessa, è affermato altresì da una pluralità di strumenti internazionali, al cui rispetto il nostro Paese si è vincolato: fra questi si fa riferimento agli artt. 8 e 9 della Convenzione sui diritti del fanciullo, l’art. 24, co. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, tutte norme che insistono sul diritto del figlio e di entrambi i genitori di godere di una mutua relazione continuativa, indipendentemente dal fatto che i genitori siano separati o meno, perché il trascorrere del tempo può avere delle conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e il genitore che non vive con lui.

 

  1. E’ importante allora evidenziare il fatto che la discriminazione nei confronti del padre detenuto risulta ancora più evidente se si pensa non solo al contesto di diritto comunitario, ma anche rispetto al diritto vivente ed alle importanti riforme che il nostro legislatore ha apportato in materia di diritto di famiglia e non solo, le quali hanno portato a una completa equiparazione delle due figure genitoriali.

Quanto al diritto di famiglia, la nuova disciplina dell’affidamento condiviso (D.lgs 28 dicembre 2013, n. 154 “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione”),  ha  trasposto in legge il principio cardine della bigenitorialità, definendolo come il diritto del figlio minorenne di “mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi”.

Anche il diritto del lavoro si è adeguato a tale parificazione di disciplina tra il padre e la madre. Se le prime disposizioni normative in materia di congedo parentale riguardavano esclusivamente la madre (L. 1204/1971 e L. 903/1977), già dalla legge 8 marzo 2000, n.53 è stata introdotta la possibilità di godere del congedo parentale anche a favore del padre. Innovazione mantenuta anche con il successivo D.Lgs. 26 marzo 2001, n.151, il quale ha previsto il congedo di paternità obbligatorio con l’obiettivo di ottenere una più equa ripartizione delle responsabilità di assistenza tra padri e madri e permettere una precoce instaurazione del legame tra padre e figlio.

 

Anche nel campo processual-penalistico il legislatore non è stato del tutto sordo rispetto a questa nuova concezione del ruolo del padre nell’assistenza e nella crescita dei figli. Tra i lavori parlamentari che hanno condotto alla legge del 21 aprile 2011, n.62, “Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”, che ha modificato l’art. 275, c.4 c.p.p., si evidenzia il Parere della I Commissione Permanente (Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni) dove viene affermato il diritto inviolabile del minore all’assistenza del padre, a prescindere dal ruolo della madre.  Si legge infatti: “i benefìci previsti dal provvedimento spettano al padre in taluni casi solo a condizione che la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole e in altri casi spettano solo alla madre; appare necessario valutare tali disposizioni alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha sempre riconosciuto l’importanza del contributo paterno allo sviluppo armonico della personalità dei minori; in particolare, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, esiste un principio di «paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura e all’educazione della prole, senza distinzione o separazione di ruoli tra uomo e donna, ma con reciproca integrazione di essi» (sentenze n. 341 del 1991, n. 179 del 1993, n. 376 del 2000 e n. 385 del 2005)”.

Inoltre è stato siglato a Roma nel 2014 (rinnovato nel 2016,2018 e 2021) un protocollo d’intesa chiamato “la Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti” tra il Ministero della Giustizia, l’Autorità garante per l’Infanzia e l’adolescenza e l’associazione “Bambini senza sbarre onlus” a tutela dei diritti dei 100 mila bambini e adolescenti che ogni anno entrano nelle carceri italiane.
In particolare, l’art.1 della Carta raccomanda di “individuare nei confronti di genitori con figli di minore età misure di attuazione della pena che tengano conto del superiore interesse di quest’ultimi” e l’art.7 ribadisce la necessità di escludere per i bambini la permanenza in istituti carcerari e di prevedere per il genitore misure alternative alla detenzione.
Ancora una volta è stata ribadita l’equiparazione tra padre e madre (nel testo compare, difatti, il termine indistinto “genitori”) e viene sancita l’inalienabilità del diritto soggettivo della genitorialità anche per chi si trova in una situazione atipica (la detenzione in carcere) rendendo così effettivo quando disposto da Costituzione e Codice Civile.

Anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha avuto modo più volte di esprimersi con riguardo all’importanza del legame del figlio con entrambe le figure genitoriali, in particolare la sentenza della Corte di Strasburgo “Causa S.H. c. Italia – Quarta Sezione – sentenza 13 ottobre 2015 (ricorso n. 52557/14)” ha stabilito la violazione dell’art. 8 CEDU da parte dello Stato Italiano, sancendo importanti principi di diritto.

La CEDU, difatti, afferma: “39. La Corte rammenta che, al di là della protezione contro le ingerenze arbitrarie, l’articolo 8 pone a carico dello Stato degli obblighi positivi inerenti al rispetto effettivo della vita famigliare. In tal modo, laddove è accertata l’esistenza di un legame famigliare, lo Stato deve in linea di principio agire in modo tale da permettere a tale legame di svilupparsi (si veda Olsson c. Svezia (n. 2), 27 novembre 1992, § 90, serie A n. 250; Neulinger e Shuruk c. Svizzera [GC], n. 41615/07, § 140, CEDU 2010; Pontes c. Portogallo, sopra citata, § 75). Il confine tra gli obblighi positivi e negativi derivanti dall’articolo 8 non si presta a una definizione precisa, ma i principi applicabili sono comunque comparabili. In particolare, in entrambi i casi, si deve avere riguardo al giusto equilibrio da garantire tra i vari interessi coesistenti, tenendo conto tuttavia che l’interesse superiore del minore deve costituire la considerazione determinante che, a seconda della sua natura e gravità, pu  prevalere su quello del genitore (Sahin c. Germania [GC], n. 30943/96, § 66, CEDU 2003-VIII; Kearns c. Francia, n. 35991/04, § 79, 10 gennaio 2008 )

 Ed ancora: “40. La Corte rammenta anche che, nel caso degli obblighi negativi come nel caso degli obblighi positivi, lo Stato gode di un certo margine di apprezzamento (si veda W. c. Regno Unito, 8 luglio 1987,), che varia a seconda della natura delle questioni oggetto di controversia e della gravità degli interessi in gioco. In particolare, la Corte esige che le misure che conducono alla rottura dei legami tra un minore e la sua famiglia siano applicate solo in circostanze eccezionali (Clemeno e altri c. Italia, n. 19537/03, § 60, 21 ottobre 2008), o quando siano giustificate da un’esigenza primaria che riguarda l’interesse superiore del minore (…) La Corte rammenta che, per un genitore e suo figlio, stare insieme rappresenta un elemento fondamentale della vita famigliare (Couillard Maugery c. Francia, sopra citata, § 237) e che delle misure che portano a una rottura dei legami tra un minore e la sua famiglia possono essere applicate solo in circostanze eccezionali”.

Nessuna distinzione nell’affermare tali principi è fatta tra la madre e il padre dei minori, questi ultimi primari e specifici soggetti delle tutele previste.

 

  1. E’ possibile allora rilevare come la Corte finisca in un certo senso per smentire la stessa premessa da cui prende le mosse circa la «speciale importanza, dal punto di vista costituzionale, degli interessi del minore» , importanza che «esige che i pur rilevanti interessi sottesi all’esecuzione della pena debbano, di regola, cedere di fronte alle esigenze del figlio minore». Inoltre, nella fattispecie in questione, il bilanciamento in concreto tra l’interesse del minore e l’esigenza di prevenzione generale e di sicurezza collettiva sotteso alla necessaria esecuzione della pena è precluso al Giudice quando risulta che la madre sia in vita o comunque nella disponibilità di assistere al figlio minore. Una volta accertato infatti che la madre sia nella possibilità di prendersi cura della prole, è negata al tribunale di sorveglianza la possibilità di operare qualsiasi bilanciamento di interessi e la misura non può essere in nessun modo concessa al padre detenuto.
    La visione affermata dalla stessa Corte secondo la quale la ratio della previsione di cui alla lettera a) del comma 1 dell’art. 47-ter ordin. penit. sia la soddisfazione dell’interesse non alla bigenitorialità bensì alla coltivazione ed alla conservazione del rapporto con la figura materna è senz’altro coerente con la disciplina prevista in origine dall’articolo 47-ter lett a) in virtù del fatto che inizialmente il beneficio della detenzione domiciliare poteva essere concesso solo alla “donna incinta o che allatta la propria prole ovvero madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente”, con una scelta legislativa pensata per assicurare la fondamentale relazione della madre con il figlio durante l’allattamento o comunque nei primissimi mesi di vita. Tuttavia, nel momento in cui il legislatore è intervenuto più volte per estendere il campo di operatività della detenzione domiciliare  innalzando l’età del minore fino a 10 anni e al contempo inserendo anche il padre come possibile beneficiario della misura, è logico ritenere che la ratio di fondo che aveva spinto il legislatore a inserire questa previsione perda di fondamento, in quanto, dopo i primissimi anni di vita , la relazione del bambino con la madre continua ad essere importantissima e centrale nella formazione e crescita del figlio ma al contempo lo diventa anche quella con il padre.

Ecco che a fronte dei dubbi e delle perplessità che la sentenza in commento suscita, la possibile chiave di lettura ce la offre la Corte stessa. Nell’ultima parte della motivazione della sentenza traspare la preoccupazione che vengano sacrificate le istanze di sicurezza sociale, in nome dell’interesse del minore. Si afferma infatti che «nel decidere di introdurre forme di esecuzione extramuraria in favore delle donne madri di figli in tenera età che non presentino una spiccata pericolosità sociale, indipendentemente dalla prova dell’indisponibilità del padre a prendersi cura del bambino, è verosimile che il legislatore abbia altresì tenuto conto dell’impatto complessivamente contenuto di simili misure sugli interessi sottesi all’esecuzione delle pene detentive, in ragione se non altro della ridotta proporzione di donne nell’ambito della complessiva popolazione carceraria femminile». Secondo la ricostruzione della Consulta quindi è lecito ritenere che se venisse concessa la stessa possibilità di accedere alla detenzione domiciliare alla più numerosa popolazione carceraria degli uomini questo avrebbe un impatto sociale di una portata decisamente diversa e più preoccupante in virtù del fatto che il numero dei padri in carcere è notevolmente maggiore rispetto a quello delle madri. La più restrittiva condizione per la concessione della detenzione domiciliare ordinaria ai padri di prole minore è, in effetti, espressione di un bilanciamento di interessi effettuato, a monte, dal legislatore.
La fattispecie legale è improntata alla ratio secondo cui occorre tener conto dell’impatto negativo che la misura extramuraria, se allargata in eccesso, avrebbe sulle esigenze di tutela della collettività sottese alla esecuzione della pena in carcere.
A ben vedere, un dato statistico non può essere però il fondamento delle argomentazioni della Corte chiamata ad esprimersi sulla legittimità costituzionale di una norma che coinvolge interessi di rilevanza costituzionale, come il diritto all’infanzia e il diritto a ricevere cura ed assistenza da entrambi i genitori.

La sentenza quindi offre epiloghi piuttosto deludenti se si raffronta ai principi enunciati nella premessa, considerato anche che si inserisce in un contesto generale in cui abbiamo visto come il ruolo del padre nella famiglia e nella società in cui viviamo sia profondamente mutato ed i suoi diritti nei confronti dei figli – soprattutto nell’interesse specifico dei minori – sono diventati autonomi e di importanza a sé stante rispetto a quelli della madre .

Se tale rivoluzione si è verificata in settori peculiari quali il diritto di famiglia e il diritto del lavoro in ossequio ai principi costituzionali delle pari opportunità dei genitori (il cui ruolo è indifferenziato nell’art. 30 della nostra Carta fondamentale), è del tutto auspicabile che questo avvenga anche nell’ambito del diritto penitenziario, attraverso un intervento diretto del legislatore che colmi questo vulnus di tutela, così come auspicato dalla Corte stessa nell’ultimo passaggio della pronuncia.

La privazione della figura paterna inflitta infatti con l’esecuzione della custodia cautelare o la detenzione in carcere del genitore risulta sovente una misura eccessivamente afflittiva per i figli minori, capace di cagionare un pregiudizio grave ed irreparabile alla loro salute psicofisica e alla loro possibilità di un equilibrato sviluppo.

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