Con il Suo volume, “Vite Minori”, la giornalista Raffaella Di Rosa restituisce la voce ai giovani ristretti negli Istituti Penali Minorili (in altre parole, carceri) del nostro Paese, che, separati dal mondo, vivono ai margini della società. Ognuno di loro racconta la propria storia: da dove provengono, perché commettevano reati e cosa si aspettano dal futuro; alcuni con progetti ed entusiasmo, altri impauriti e disorientati.
L’esecuzione della pena ha come finalità – imprescindibile – la rieducazione del condannato; ciò ancor più quando minori o giovani adulti vengono privati della libertà personale. Tale obiettivo passa attraverso un trattamento, un programma di recupero, che dovrebbe prevedere laboratori, attività lavorative, sport, percorsi di sostegno psicologico, volto a mostrare ai minori ristretti che oltre alla delinquenza esistono altri modi per vivere. Il carcere è un luogo chiuso, in cui il tempo sembra fermarsi mentre il mondo esterno progredisce, dove è necessario seguire regole ed orari scanditi e in cui la libertà viene compressa. Sono le attività a rendere sopportabili i giorni che, con monotonia, si susseguono nella realtà carceraria. “<<Il momento più duro qui dentro è la domenica>> spiega Ahmed. La domenica, così come il sabato, si ferma tutto, non ci sono attività, non si possono fare colloqui o videochiamate, le giornate non passano mai. <<La domenica il carcere è una merda, ti senti chiuso come ad Alcatraz, ti guardi intorno e ti chiedi: “Perché sono finito qua?”>>” (Pag. 39).
Leggendo il libro ci scontriamo con la sofferenza che grava sulla giustizia minorile, un sistema attraversato da molteplici difficoltà sconfortanti che lasciano un profondo senso di delusione.
L’Autrice affronta un tema di grande attualità: il sovraffollamento, un fenomeno inedito per il circuito penitenziario minorile. Com’è possibile garantire lo svolgimento delle attività trattamentali se le presenze negli Istituti superano, di gran lunga, la loro capienza? “Il tempo in carcere non passa mai e fare attività per questi ragazzi diventa l’unica possibilità di impiegarlo in qualche modo. Ma non sempre questo si può fare; al Beccaria, per esempio, sono talmente tanti, una settantina contro la capienza prevista di 48, che gestire i corsi della mattina e del pomeriggio cosi come l’attività scolastica è difficile”. È evidente che tale aspetto incide negativamente sul percorso di recupero e finisce per vanificare quella che dovrebbe essere l’essenza stessa della pena, specie quella detentiva: “(…) <<Se non possiamo fare il trattamento, ovvero le attività e i laboratori per questi ragazzi, allora non è più giustizia minorile diventiamo carcere e basta>>”. Le parole della Comandante Ascione dell’I.P.M. di Nisida (Polizia penitenziaria) spiegano il senso (almeno a livello teorico) della restrizione carceraria: una misura in grado di “preparare alla vita” chi, fino a quel momento, non è riuscito ad imparare a vivere in società; diversamente la detenzione diventa mera custodia. A fronte di questo fenomeno l’Amministrazione penitenziaria è costretta a trovare dei rimedi di emergenza per assicurare un posto a tutti i ragazzi accolti all’interno delle strutture. Si riporta come esempio quanto successo nell’I.P.M. Ferrante Aiporti di Torino dove per giorni alcuni detenuti hanno dormito per terra sui materassi. È evidente, quindi, che il sovraffollamento influisce anche sulla qualità della vita dei detenuti e, generando malcontenti, provoca comportamenti esplosivi con conseguenze rovinose (“<<(…) la rabbia sale da qui: “Tu mi fai stare così, io ti distruggo il contenitore in cui mi hai rinchiuso”>>”, Monica Gallo, Garante dei diritti dei detenuti di Torino).
Altro aspetto problematico di cui si dà conto nel volume è la tossicodipendenza. Negli ultimi anni, è aumentato il numero di minori assuntori di sostanze stupefacenti e psicotrope. Sono soggetti fragili, bisognosi di una sorveglianza continua. Talvolta vengono rinchiusi in una stanza isolata <<sotto l’occhio di una telecamera>>, la medesima cella cui sono destinati i detenuti sottoposti a procedimento disciplinare (cfr. pag. 39). Davanti a questa contraddizione il lettore rimane stupito: una stanza dalle <<“pareti spoglie”>>, in cui ti senti <<“completamente solo”>>, impiegata come “metodo punitivo”, diventa il luogo di contenimento e osservazione di soggetti vulnerabili – talvolta autori di comportamenti autolesivi – che devono essere protetti. Perciò, i minori assuntori di sostanze hanno bisogno di cure ad hoc, e,oltre ad unprogramma rieducativo, dovrebbero intraprendere anche un percorso riabilitativo in grado di promuovere sia il loro recupero sociale che personale. Di tal che, il carcere appare il luogo meno adeguato dove far risiedere questi soggetti; dovrebbero essere collocati in comunità terapeutiche, però, è difficile trovarvi posti disponibili.
Le testimonianze raccolte dall’Autrice – non solo ai detenuti, ma anche al personale (medici, educatori, direttori ecc…) – mettono ancor più in evidenza gli aspetti nevralgici di un sistema in decadenza. Tuttavia, tali criticità sembrano destinate a permanere nel tempo, tanto se ne discute ma a fatica si riescono ad individuare soluzioni efficaci. A complicare un quadro già di per sé caotico contribuirebbero alcune scelte effettuate in questi anni dal legislatore: il c.d. Decreto Caivano, secondo Susanna Marietti dell’associazione Antigone, avrebbe <<“trasformato drasticamente il sistema della giustizia minorile, spostandolo verso un modello criminalizzante carcerocentrico e purtroppo privo di prospettive”>> (pag. 129).
Tutte queste difficoltà, unitamente alla carenza di personale, possono contribuire alla realizzazione di episodi terribili, come quelli verificatisi all’I.P.M. Beccaria di Milano che vede coinvolti ventuno agenti penitenziari. “<<Ci sentivamo abbandonati a noi stessi, senza controlli gerarchici né aiuti da parte della struttura>>, si sono difesi i poliziotti coinvolti. C’è qualcosa di vero anche in questa affermazione, che non giustifica nulla ma racconta lo stato in cui per anni ha vissuto questo carcere, ieri modello virtuoso e oggi tra gli istituti penali per minori più in difficoltà per varie ragioni: sovraffollamento, continui cambi al vertice, agenti poco formati.”
Sicuramente sarebbe necessario implementare l’organico e dotare gli operatori di una formazione professionale che li renda capaci di fronteggiare adeguatamente i problemi e le esigenze dei ristretti negli Istituti penali per minori; è proprio in questa direzione che vorrebbe muoversi il Dipartimento della Giustizia minorile e di Comunità: “<<La situazione dentro è critica perché questi ragazzi presentano problematiche legate all’uso di sostanze e disagio psichico e questo richiedere figure nuove anche all’interno degli istituti di pena per minori>>”. Così, il Capo del Dipartimento, Antonio Sangermano, ha deciso di dotare gli I.P.M. di nuovi agenti, ma aspira anche a potenziare le attività trattamentali ed incrementare gli spazi (pag. 130). Vi, infine, è il progetto di aprire/riattivare quattro nuovi Istituti penali (Aquila, Lecce, Rovigo e Santa Maria Capua Venere); “le carceri sono piene di detenuti” e questo contribuirebbe a creare spazi nuovi.
Poiché è pacifico che il carcere deve essere disposto solo quando non vi sono alternative ugualmente efficaci, sarebbe auspicabile porre l’attenzione sul circuito extramurario. Episodi come quelli avvenuti nel Comune di Caivano (vicenda da cui trae spunto la normativa del 2023 poc’anzi menzionata) rivelano l’incapacità “dei contesti familiari e sociali a intercettare indizi del malessere dei giovani”. Il sistema comunitario sta attraversando una profonda crisi a causa delle problematiche e dei disagi da cui i minori, oggi, sono affetti e “<<se una volta avevamo comunità con un modello educativo, oggi quel modello non è più sufficiente. Servono comunità integrate, capaci di trattare il disagio psichico e l’uso di sostanze stupefacenti. C’è bisogno anche di un intervento sanitario>>”. Dalle parole di Cira Stefanelli emerge con chiarezza la sofferenza che attanaglia non solo il sistema penitenziario in sé, ma l’intero circuito penale minorile. Non è sufficiente predisporre un nuovo carcere se poi la struttura non è capace di gestire problematiche complesse; né collocare più agenti se questi, prima di prendere servizio, non vengono dotati di una formazione specifica che li renda pronti ad affrontare situazioni inaspettate. È difficile ripudiare l’idea di un sistema carcerocentrico se sono poche le Comunità che funzionano: quelle terapeutiche sono piene; altre, invece, chiudono “perché incapaci di far fronte alle esigenze e ai bisogni di questi ragazzi (…) con traumi e dipendenza per i quali sono necessari strumenti e competenze specifiche”.
“Vite Minori” consente al lettore di avvicinarsi a un mondo sconosciuto e isolato e, tramite le testimonianze raccolte, induce a ripensare al significato della pena quando riguarda minori.
Pare opportuno in questa sede segnalare il nuovo disegno di legge – approvato dal Consiglio dei Ministri – in materia di detenzione domiciliare per il recupero dei detenuti tossicodipendenti o alcol dipendenti, condannati a pena detentiva, che offre loro la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare in una struttura che eroga servizi sanitari e socio-sanitari, sulla base di un progetto terapeutico residenziale a carattere socio-riabilitativo. Questo nuovo regime di detenzione domiciliare dovrebbe rendere l’esecuzione della pena maggiormente rispondente alle esigenze socio-riabilitative dei suoi destinatari e mostra un’apertura dei vertici a trovare soluzioni ad istanze che per molto tempo sono rimaste inascoltate.