16 Ottobre 2024

White Paper: un documento su cui riflettere

A cura di Giulia Vagli

Il Council for Penological Co-Operation (PC-CP) del Consiglio D’Europa[1] è impegnato nella elaborazione di una bozza di Raccomandazione concernente la promozione della salute mentale e la gestione delle persone affette da disturbi mentali che si trovino all’interno degli istituti penitenziari ovvero siano sottoposte alla libertà vigilata. In attesa che l’iniziativa assuma concretezza[2] ci pare opportuno esaminare il cd. White Paper. Le indicazioni contenute nella bozza di Raccomandazione si fondano, infatti, sui risultati di una ricerca svolta dallo stesso PC-CP e di cui viene dato ampio resoconto, per l’appunto, nel Paper. Si tratta, in effetti, di un documento che è il frutto di un lungo lavoro svolto dallo stesso Consiglio, il quale, conformemente al suo mandato per il 2020-2021[3], ha esaminato, nel corso di otto riunioni – tenutesi tra il 2021 ed il 2022 – le cause e gli effetti di una sempre più diffusa pratica di assoggettamento di persone affette da patologie mentale al circuito dell’esecuzione penale.  

Così il Libro Bianco vuole essere un monito per le autorità degli Stati membri del Consiglio d’Europa affinché si impegnino ad apprestare una maggiore attenzione al numero – sempre più significativo – di persone con disturbi di salute mentale presenti nel circuito dei servizi penitenziari e di libertà vigilata.

Prima di procedere con l’analisi sono doverose due precisazioni. In primis il Comitato, ai fini della stesura sia del White Paper che della bozza di Raccomandazione, accoglie la definizione di disturbo mentale fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, in virtù della quale vi rientrano in questa nozione le seguenti patologie: la depressione, il disturbo affettivo bipolare, la schizofrenia e le altre psicosi, la demenza e i disturbi dello sviluppo, inclusi tutti i disturbi rientrati nello spettro autistico. In secundis, occorre sottolineare che per addivenire ad una corretta rappresentazione della «current picture» e individuare gli strumenti di intervento necessari è stato inviato un questionario[4] ai servizi penitenziari e di libertà vigilata di tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa. Dei risultati di questo rilevamento ci occuperemo più nel dettaglio nel prosieguo della trattazione.

Una considerazione preliminare: è sempre più elevato il numero delle persone affette da patologie mentali che finiscono per essere attratte nel circuito penale

Presupposto logico di questa indagine è stato quello di interrogarsi sulle ragioni del progressivo incremento del numero di soggetti affetti da disturbi mentali che si trova a essere recluso in carcere o sottoposto alla misura della libertà vigilata.

Al riguardo un’analisi meritevole di attenzione è quella contenuta in una pubblicazione del Center for Addiction and Menthal Health in Canada[5]. Stando alla ricerca le ragioni per le quali le persone affette da disturbi mentali entrano nel sistema di giustizia penale (e nello specifico in quello penitenziario), ancorché molteplici, sono tra loro strettamente connesse. Tra i principali fattori che, per l’appunto, incentivano detta sorte vanno annoverate le condizioni di indigenza, il substrato culturale, le tematiche legate al razzismo, nonché l’uso e l’abuso di sostanze stupefacenti e di alcool.  

Non solo. Stando a quanto emerge dal White Paper, sarebbe anche la diretta conseguenza del fallimento dei servizi di salute mentale rispetto al sistema di giustizia penale.  

  • L’OMS e l’International Rescue Committee (da ora IRC)[6] definiscono il ricorso all’utilizzo degli istituti penitenziari come un «dumping grounds for people with a serious mental health disorder who cannot obtain an acute bed»[7]. Proseguono «The imprisonment of people with mental disorders due to lack of public mental health service alternatives should be strictly prohibited by law»[8]. Così facendo il circuito penitenziario finisce per essere una «discarica» per persone con un grave disturbo psichico. Questo fenomeno, che ha certamente assunto connotati patologici, prende il nome di «criminalization» della malattia mentale[9]. La WHO, una volta appurato quanto gli istituti penitenziari e il regime di libertà vigilata siano dannosi per la salute mentale, ha enucleato una serie di misure di intervento che si renderebbero necessarie per un corretto «governo» del problema, tra le quali: prevenzione, individuazione e trattamento adeguato dei disturbi mentali; dirottamento delle persone con disturbi mentali al sistema di salute mentale (ciò in tutte le fasi del procedimento penale: dall’arresto alla reclusione in seguito di sentenza definitiva). Ciò nonostante all’interno degli istituti penitenziari a tutti i detenuti devono essere riconosciute cure e trattamenti adeguati alle specificità del caso. Per far ciò si rende necessaria, altresì, una formazione del personale in materia di salute mentale congiuntamente all’educazione dei detenuti e alle loro famiglie sui problemi afferenti la sfera psichica in modo che questi ultimi possano essere di supporto nel percorso di recupero.
  • Nel Libro Bianco si tiene conto anche delle Regole Penitenziarie Europee (EPR)[10] che dettano princìpi generalmente conosciuti – e riconosciuti – a livello europeo nel contesto della gestione degli istituti penitenziari del trattamento dei detenuti. In particolare, la regola 12 si preoccupa di stabilire che tutte le persone il cui stato è incompatibile con la detenzione in carcere, siano detenute in un istituto appositamente pensato. E qualora dovessero trovarsi in carcere, disposizioni speciali dovrebbero disciplinare le loro specifiche esigenze. I punti 15.1.f e 16.a raccomandano che al momento dell’ingresso in carcere venga redatta una relazione scritta della situazione di salute di ciascuna persona alla quale deve far seguito una tempestiva visita medica. Ancora, la regola 40 raccomanda che i servizi medici in carcere tentino di individuare e curare malattie mentali, compreso il proseguimento di un eventuale trattamento medico avviato prima dell’ammissione in carcere.
  • Un contributo molto rilevante è fornito altresì dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo. I giudici di Strasburgo hanno avuto modo in più occasioni, in effetti, di sottolineare anzitutto come la detenzione prolungata nel tempo di un soggetto senza un controllo periodico del suo stato psico-fisico ed un intervento medico adeguato costituisca un trattamento inumano e degradante in pieno contrasto con l’art. 3 CEDU. Hanno altresì statuito che i detenuti affetti da gravi disturbi mentali e/o con intenti suicidari richiedono l’applicazione di misure ad hoc, calibrate alle loro particolari condizioni di salute, indipendentemente dalla gravità del reato per i quali siano stati condannati. È fuori dubbio, infatti, che alcuni aspetti della vita in carcere rappresentano un maggiore rischio per la loro stabilità psichica, esasperando condizioni di fragilità emotiva[11].
  • Il documento in esame richiama anche la Convenzione sui Diritti dell’Uomo e la Biomedica (cd. Convenzione di Oviedo[12]), che protegge la dignità e l’identità di tutti gli esseri umani e mira a garantire a ciascuno, senza alcuna discriminazione, il rispetto della sua integrità e degli altri diritti e libertà fondamentali relativamente all’applicazione della medicina e della biologia. Nel richiamare la Convenzione, il Libro Bianco precisa che «le sue disposizioni si applicano alla pratica medica e all’assistenza sanitaria, compresa l’assistenza mentale in carcere, nonché ad altre aree specifiche della medicina che possono essere rilevanti anche per i detenuti e le persone in libertà vigilata». Uno dei capisaldi su cui si fonda la Convenzione in parola è il «principle of free and informed consent», a cui è dedicato l’intero capitolo secondo. L’art. 5, in particolare, pone il principio secondo il quale un intervento medico non possa essere eseguito se non dopo che la persona interessata abbia rilasciato il consenso libero ed informato. Il successivo articolo 6 disciplina il caso in cui il consenso debba essere prestato da un individuo che non ne abbia le capacità. In questo caso – tenendo in debito conto del combinato disposto con gli artt. 17 e 20 della stessa Convenzione – il trattamento può essere apprestato solo se a suo beneficio diretto. Un’ipotesi particolare di incapacità – che qui merita particolare attenzione – è disciplinata, infine, nel successivo art. 7, avente ad oggetto il consenso di persona affetta da grave disturbo mentale per un trattamento finalizzato a curare detta patologia. In questa eventualità il medico potrà eseguire la prestazione sanitaria solamente nel caso in cui l’assenza del trattamento sia pregiudizievole per la salute del soggetto e comunque nel rispetto dei limiti stabiliti con legge.
  • Un altro significativo apporto, richiamato dal White Paper, è quello del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) che ha riconosciuto l’importanza dell’assistenza psichiatrica nelle carceri. Già nel 1993, nel dettare gli standard per l’assistenza sanitaria in generale in carcere, ha stabilito altresì alcuni standard per l’assistenza psichiatrica[13]. Ciò in quanto «un prigioniero malato di mente dovrebbe essere tenuto e curato in una struttura ospedaliera che sia adeguatamente attrezzata e possieda personale adeguatamente formato. Tale struttura potrebbe essere un ospedale psichiatrico civile o una struttura psichiatrica appositamente attrezzata all’interno del sistema carcerario»[14].

Statistiche

Come anticipato è stato sottoposto a tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa[15] un questionario su diversi aspetti della tematica in esame, creandosi spesso nelle risposte una sorta di dicotomia tra carcere e libertà vigilata.

Il test somministrato includeva anzitutto una domanda relativa all’esistenza o meno di politiche governative all’interno dei singoli Stati. È emerso che nei diversi Paesi la problematica relativa ai soggetti con problemi di salute mentale è gestita diversamente a seconda che il soggetto si trovi recluso in carcere o sottoposto alla misura della libertà vigilata. Dall’indagine condotta, infatti, risulta che solamente il 53% dei Paesi – quindi, poco più della metà – riconosce di avere nel proprio sistema una politica nazionale per la gestione dei soggetti con disturbi mentali in libertà vigilata. Ciò in pieno contrasto con quello che si registra in merito alle carceri: ben il 93% dei Paesi – quindi, quasi la totalità – ha dichiarato di avere una politica nazionale in materia.

Stesso trend si registra anche in merito alla formazione e sensibilizzazione attorno alla salute mentale dei detenuti. Dal test risulta che il 74% del personale penitenziario ha ricevuto una formazione su come gestire le persone recluse affette da disturbi mentali; contro il 37% delle persone che si trovano in libertà vigilata. Ciò perché nella maggior parte degli Stati è richiesto il conseguimento di una laurea in psicologia o comunque nel campo delle scienze sociali per poter rivestire il ruolo di addetto alla sorveglianza.

Princìpi guida e sollecitazioni

. Il White Paper anzitutto sottolinea la necessità di raggiungere un accordo a livello politico-decisionale con il quale si riconosca l’esigenza prioritaria di garantire un livello adeguato di assistenza nel campo della salute mentale, anche nel caso di soggetti gestiti dai servizi penitenziari ovvero di liberà vigilata. 

Per far ciò è imprescindibile la costituzione di équipe multidisciplinari così da poter garantire un’assistenza completa ai soggetti interessati. Fondamentale, allora, diviene anche una formazione continua del personale, specie quello che gestisce la misura della libertà vigilata.

. Si insiste, poi, sulla necessità dell’individuazione precoce dei disturbi di salute mentale mediante screening. Si deve mirare all’individuazione di un disturbo di salute mentale sin dal primo contatto del soggetto con il sistema di giustizia penale in modo da poter determinare una sua deviazione dal carcere alla libertà vigilata o al rinvio ad un servizio di salute mentale. Qualora invece il soggetto si trovi già in carcere, la tempestività della diagnosi riduce la probabilità di suicidio, altra piaga dei sistemi moderni, non solo europei, rispetto alla quale gli Stati tentano di dare una risposta. Dal questionario somministrato – si legge nel White Paper – si evince l’esistenza di una strategia di prevenzione al suicidio che si attesta attorno al 90% dei Paesi, congiuntamente ad una raccolta sistematica dei dati relativi al numero di suicidi che si consumano all’interno degli istituti penitenziari[16].

. In ultimo, viene dato adeguato rilievo all’importanza della creazione di una sorta di banca dati sulla salute mentale, sia su scala nazionale che europea, così da avere uno strumento che permetta di monitorare il trend del fenomeno e l’efficacia o meno degli strumenti messi in campo.

Considerazioni conclusive

Alla luce di quanto è stato «fotografato», pure sommariamente dal Libro bianco, circa il delicato tema della tutela della salute mentale nei soggetti sottoposti a restrizione della libertà personale, la bozza di Raccomandazione ha individuato alcune macro-aree di interesse, precisamente cinque:

  • la bozza apre definendo la portata dell’intervento ed i princìpi generali che disciplinano il modo in cui dovrebbero essere affrontati tutti gli aspetti della salute mentale dei detenuti e dei soggetti in libertà vigilata;
  • segue una sezione dedicata alla promozione e alla tutela della salute mentale di coloro che vedono limitata la propria libertà personale. È pacifico che il semplice fatto di essere ristretti in carcere o in libertà vigilata possa mettere a dura prova la loro salute mentale;
  • la terza parte si concentra sulla gestione dei disturbi mentali, che potrebbero richiedere un intervento più intensivo, e specifica quale forma dovrebbe assumere tale intervento,
  • mentre la quarta contiene una guida su come sostenere la salute mentale di tutto il personale che lavora con detenuti e persone in libertà vigilata e su come dovrebbe essere effettuata la formazione del personale
  • infine l’ultima sezione, la quinta, tratta dei requisiti di informazione e ricerca sulla salute mentale dei detenuti e dei soggetti in libertà vigilata.

[1] Il Consiglio per la Cooperazione Penologica è un comitato del Consiglio d’Europa che detta standard e princìpi nell’ambito dell’esecuzione delle misure penali, detentive e non detentive. È composto da 9 membri, eletti, esperti nel campo del diritto penitenziario e della libertà vigilata. Una volta all’anno si tiene una riunione plenaria con i rappresentanti dei 46 Stati membri del Consiglio d’Europa.

Prima che il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa adotti formalmente gli standard e le raccomandazioni, i testi predisposti dal Consiglio devono ricevere l’approvazione del Comitato europeo per i problemi legati alla criminalità (CD-PC).

[2] Il mese scorso si è tenuta in Roma la 36° seduta del CP-PC che ha visto la partecipazione del Comitato degli esperti oltreché dei 47 rappresentanti degli Stati membri.

[3] Si veda CM(2019)131 addrev2.   

I componenti, eletti, del Gruppo di Lavoro PC-CP che hanno partecipato alla stesura del documento sono i seguenti: Martina Barić, Annie Devos, Anna Ferrari, Robert Friškovec, Vivian Geiran, Manfred Kost, Dominik Lehner, Maria Lindström, Laura Negredo López, Nadya Radkoska, Paulina Tallroth e Jorge Monteiro. Quest’ultimo nel 2021 aveva partecipato come esperto scientifico insieme al prof. Charlie Brooker della Royal Holloway Universiy of London. Agli incontri hanno preso parte anche rappresentanti della Confederazione europea della libertà vigilata (CEP), dell’Organizzazione europea dei servizi penitenziari e penitenziari (EuroPris) e dell’International Corrections and Prisons Association (ICPA). A questi si sono aggiunti Kresimir Kamber della Cancelleria della C.EDU e Hugh Chetwynd, membro del Segretariato del Comitato per la prevenzione della tortura (CPT).  

[4] Per coloro che desiderano consultare l’intero sondaggio, è possibile accedervi qui: Prigioni e libertà vigilata: Progetto sulla salute mentale del Consiglio d’Europa/CEP (coe.int).

[5] Cfr. Mental Health And Criminal Justice. Policy Framework, in www.camh.ca, Canada, 2020, p. 5.  

[6] L’International Rescue Committee fornisce supporto e assistenza alle persone le cui vite e i mezzi di sussistenza sono stati pregiudicati dai conflitti e dai disastri cosìcché possano riprendere il controllo della loro vita e costruire un futuro. In Italia le aree di intervento riguardano principalmente la protezione ed il sostegno psico-sociale delle donne, la lotta alla tratta e allo sfruttamento lavorativo, la tutela del diritto allo studio e all’educazione nonché l’emancipazione economica.

[7] Così WHO/IRC, Information Sheet, Mental Health and Prisons, 2005.

[8] Così WHO/IRC, Information Sheet, Mental Health and Prisons, 2005.

[9] Ancora Mental Health And Criminal Justice. Policy Framework, in www.camh.ca, Canada, 2020, p. 5.  

[10] Le EPR sono contenute nell’allegato della (Rec 2006)2-rev).

[11] Sul punto si vedano, fra le altre, le seguenti pronunce: Corte europea dei diritti dell’uomo, Grand Chamber, Kudla c. Poland, 26.10.2000; Id., Grand Chamber, Murray c. Paesi Bassi (Application no. 10511/10), 26.04.2016; Id., sez. II, Rivière c. Francia, 11.07.2006; Id., sez. II,  Rooman c. Belgio, (Application no. 18052/11), 31.01.2019.

[12] La Convenzione è stata adottata nell’ambito del Consiglio d’Europa e firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997. È stata firmata senza ratifica da 6 Paesi mentre 29, inclusa l’Italia, hanno provveduto anche a ratificarla (legge 28 marzo 2001, n. 145)..

[13] Cfr. la 3° Relazione Generale del CPT (93), par. 41-44.

[14] Ancora la 3° Relazione Generale del CPT (93), par. 43.

[15] Si tenga presente che i dati sono stati raccolti nel corso dell’anno 2021 quando la Federazione Russa faceva ancora parte del Consiglio d’Europa.  

[16] Si vedano le tabelle n. 13 e n. 14, White Paper, p. 40.

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