La Corte Penale Internazionale torna frequentemente alla ribalta delle cronache per i mandati di arresto emessi contro figure di spicco coinvolte nei principali conflitti mondiali. È stato il caso del mandato emesso nel 2023 nei confronti di Vladimir Putin, accusato di crimini di guerra in Ucraina, così come, più recentemente, delle richieste di arresto rivolte al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e ai vertici dell’organizzazione Hamas, in relazione al conflitto nella Striscia di Gaza.
Le accuse si inseriscono nello specifico ambito di competenza della Corte Penale Internazionale riguardante crimini internazionali gravissimi commessi da persone fisiche: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimine di aggressione (sul tema, v., G. Vassalli, Statuto di Roma: note sull’istituzione di una Corte Penale Internazionale in Rivista di Studi Politici Internazionali, 1999, n. 9).
Tralasciando per ora questioni rilevanti, come il motivo per cui tali mandati rimangano spesso ineseguiti o l’effettiva efficacia di una Corte incaricata di perseguire crimini internazionali commessi da individui, concentriamoci sugli strumenti sanzionatori di cui la Corte dispone per reprimere questi reati.
1. Analogamente agli Statuti dei Tribunali speciali per la ex Jugoslavia e per il Rwanda, l’art. 77 dello Statuto di Roma (1998) prevede che, in caso di condanna, la Corte Penale Internazionale possa irrogare, in via principale, solo la pena della reclusione o dell’ergastolo. È stata, pertanto, esclusa la possibilità di irrogare una condanna a morte (cfr. D. Piva, Le sanzioni nello Statuto della Corte Penale Internazionale in Zeitschrift für Internationale Strafrechtsdogmatik, 2008, n. 3).
In questo aspetto si coglie una delle differenze con i Tribunali di Norimberga e Tokyo, i cui statuti attribuivano ai giudici completa discrezionalità circa le pene da applicare, fornendo come unici criteri quelli di giustizia e proporzionalità rispetto ai crimini commessi.
L’assetto sanzionatorio della Corte Penale Internazionale si ottenne al termine di un lungo dibattito circa l’eventualità di includervi anche la pena di morte, che indubbiamente segnò, in sede dei lavori preparatori, uno dei momenti più delicati dell’intera negoziazione (per il resoconto stenografico completo dei lavori della Conferenza di Roma v. United Nations Diplomatic Conference of Plenipotentiaries on the establishment of an International Criminal Court, Official Records, Vol. II, New York, 2002).
I lavori della Conferenza diplomatica iniziarono a Roma il 15 giugno 1998 sotto la presidenza del Prof. Giovanni Conso e terminarono il 17 luglio dello stesso anno. Sin dalla prima seduta plenaria si capì che il tema della pena di morte sarebbe stato divisivo. La rappresentante della Norvegia decise di evidenziarlo immediatamente nel proprio intervento introduttivo, affermando che l’inclusione della pena di morte all’interno dello Statuto sarebbe stata inaccettabile e avrebbe diminuito in modo significativo la possibilità di raggiungere un accordo definitivo.
La medesima posizione fu esplicitamente assunta nelle sedute successive dai rappresentanti di varie nazioni, tra cui Regno Unito, Svezia, Vaticano, Costa Rica, Andorra, Portogallo, Irlanda, Estonia, Nuova Zelanda, Lussemburgo nonché dagli Osservatori per conto della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e dell’Unione Europea.
Lapidaria fu la motivazione fatta propria dal rappresentante dell’Azerbaijan: “la pena di morte dovrebbe essere esclusa, non solo per ragioni attinenti ai diritti umani, ma anche perché l’oggetto della costituenda Corte deve essere quello di dare giustizia e non vendetta”.
La Danimarca propose una mediazione: “non vi deve essere la previsione di una pena capitale e, come sanzione massima, deve essere previsto l’ergastolo”.
La Russia affermò che “la pena di morte non dovrebbe essere ammessa, al fine di garantire l’adesione allo Statuto del maggior numero di Stati. A questo proposito è auspicabile permettere di apporre riserve su punti che non riguardino i principi generali”.
Peculiare fu l’istanza portata avanti dal rappresentante dell’UNICEF: “la Corte non deve avere giurisdizione sulle persone minori di diciotto anni, dal momento che non avrebbe gli strumenti riabilitativi che sono richiesti quando si parla di giustizia minorile. Inoltre, la commissione di gravi crimini da parte dei minori è, spesso, causata dall’indottrinamento e dalla manipolazione degli adulti, che dovrebbero rimanere i soli responsabili. La pena di morte e l’ergastolo non devono essere applicati ai minori di diciotto anni”.
Ad avviso di tutti questi Stati abolizionisti, se fosse stata prevista la pena di morte, la cooperazione con la Corte per la consegna dell’accusato – ai sensi dell’art. 89 dello Statuto – sarebbe altrimenti divenuta impossibile in forza di norme interne, sovente di rango costituzionale, che vietano l’estradizione di una persona nel caso in cui vi sia il rischio dell’esecuzione capitale.
2. In contrapposizione a questa schiera di Stati abolizionisti vi furono varie nazioni, tra cui Singapore, Libano, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Stati Uniti 1, che chiedevano l’inclusione della pena di morte, sia pur solo in presenza di circostanze aggravanti, argomentando l’efferatezza dei crimini internazionali e la conseguente sperequazione che si sarebbe venuta altrimenti a creare a seconda che il processo fosse stato celebrato dalla Corte o da uno dei loro tribunali interni. Inoltre, questi Stati ritenevano che l’inclusione della pena capitale fosse un elemento essenziale per rafforzare la credibilità della Corte, e che essa avrebbe contribuito con effetto deterrente alla prevenzione dei crimini internazionali.
Il rappresentante degli Stati Uniti non diede molto risalto alla tematica della pena di morte, ma si limitò a ribadire che gli USA erano, tra le altre cose, contrari ad escludere la pena capitale tra le sanzioni irrogabili dalla costituenda Corte. La posizione americana si spiega alla luce del timore per cui l’adesione allo Statuto di Roma avrebbe minato la sovranità nazionale nonché l’influenza, politica e militare, che fino a quel momento Washington aveva esercitato sul mondo.
Significativa fu la posizione del Rwanda che, portando l’esempio del genocidio del 1994, affermò la necessità di dotare la Corte della possibilità di irrogare la pena di morte al fine di avere uno strumento adeguato a punire i crimini di maggiore gravità.
Il rappresentante della Giordania pose l’accento sul contesto internazionale: “per quanto riguarda la tormentata questione della pena di morte, vorrei far notare che è sì vero che gli strumenti internazionali stanno via via spingendo per superarla, ma, ad oggi, non esiste alcun divieto assoluto e vincolante”.
Singapore affermò che non includere la previsione della pena di morte avrebbe significato inviare un messaggio di debolezza, specialmente in quelle parti del mondo dove la privazione della libertà non sarebbe stato un adeguato deterrente.
3. Dopo settimane di dibattito il Presidente della Conferenza Giovanni Conso lesse in seduta plenaria la seguente dichiarazione: “il dibattito circa le pene che dovrebbero essere applicate da questa Corte ha dimostrato che non c’è consenso unanime sull’inclusione o meno della pena di morte. Tuttavia, sulla base del principio di complementarità tra la Corte e le giurisdizioni nazionali, i singoli Stati hanno la responsabilità primaria di perseguire e punire i crimini che ricadono sotto la giurisdizione di questa Corte. Pertanto, lo Statuto non sarà in grado di influenzare le politiche di giustizia penale dei singoli Stati. A garanzia di ciò, è auspicabile inserire una clausola con cui si stabilisca che la mancata previsione della pena di morte all’interno dello Statuto non influenzerà in alcun modo le legislazioni nazionali e non sarà da qualificare come evoluzione del diritto internazionale consuetudinario”.
Ecco spiegato perché, all’interno del Capitolo VII dello Statuto venne inserito a chiusura l’art. 80 con cui si stabilì: “nessuna disposizione del presente capitolo vieta l’applicazione ad opera degli Stati di pene previste dal loro diritto interno, né l’applicazione della normativa di Stati che non prevedono le pene stabilite nel presente capitolo” (sul tema, v., Triffterer – Ambos, Rome Statute of the International Criminal Court A commentary, 3rd edition, Monaco di Baviera, 2016, pp. 1880 ss.).
Alla fine, anche grazie alla previsione dell’art. 80 e a seguito della votazione contraria di sette nazioni tra cui gli Stati Uniti, venne approvato il definitivo art. 77, in cui si stabilì che la Corte può infliggere una delle seguenti pene:
(a) la reclusione per un numero specificato di anni, che non può superare un massimo di trenta; o
(b) la pena dell’ergastolo, quando giustificata dall’estrema gravità del crimine e dalle circostanze individuali della persona condannata.
4. Le medesime obiezioni circa la pena di morte furono avanzate da alcuni Stati anche rispetto all’inclusione della pena dell’ergastolo, il cui carattere perpetuo appariva del tutto incompatibile con l’assolvimento di finalità rieducative o di risocializzazione, nonché in potenziale contrasto con gli standard minimi di garanzia dei diritti fondamentali della persona internazionalmente riconosciuti [v. in tal senso Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Grande Camera 9.07.2013, Vinter e altri c. Regno Unito: <<There are a number of reasons why, for a life sentence to remain compatible with Article 3, there must be both a prospect of release and a possibility of review. It is axiomatic that a prisoner cannot be detained unless there are legitimate penological grounds for that detention. These grounds will include punishment, deterrence, public protection and rehabilitation>>].
Di qui la scelta di prevederne l’applicazione solo ove ciò fosse giustificato dall’estrema gravità del crimine e dalla situazione personale del condannato (come risulta dalla lettera dell’art. 77 dello Statuto di Roma).
A questo riguardo, può tuttavia ritenersi che, vista l’indeterminatezza delle locuzioni normative impiegate, e i criteri di qualificazione giuridica assolutamente generici cui esse rinviano, l’unica misura certa di effettivo contenimento dell’ergastolo coincide, di fatto, con l’istituto della revisione che impone alla Corte di riesaminare la questione della pena trascorsi venticinque anni di reclusione ed eventualmente procedere ad una sua riduzione tenuto conto, in particolare, sia delle condizioni personali del reo (di salute o emotive), del comportamento assunto durante l’esecuzione della pena e delle iniziative intraprese nei confronti delle vittime o delle loro famiglie, sia degli effetti che una sua liberazione anticipata potrebbe produrre in termini di instabilità sociale (art. 110 Statuto di Roma).
In ciò lo Statuto mostra di aver recepito quanto già affermato dalla giurisprudenza costituzionale di diversi paesi europei secondo cui la natura perpetua della pena detentiva si conformerebbe alla sua finalità rieducativa solo in virtù della possibile applicazione di istituti che consentano comunque una rivalutazione della pena perpetua.
Note
- La posizione di Washington allo Statuto di Roma fu ostile sin dall’inizio dei negoziati e produsse un duro confronto al momento della sua entrata in vigore. Pertanto, pur avendo partecipato ai negoziati, gli USA votarono contro al testo definitivo e non ratificarono mai il trattato.
Nel 2002 approvarono una legge federale che fu soprannominata Legge di invasione dell’Aia con cui si autorizzò il Presidente ad utilizzare “tutti i mezzi necessari e appropriati per ottenere il rilascio di qualsiasi membro del personale statunitense o alleato detenuto o imprigionato da, per conto di o su richiesta della Corte Penale Internazionale”.
Nel giugno 2020 l’allora Presidente degli Stati Uniti Donald Trump autorizzò l’irrogazione di sanzioni contro funzionari della Corte Penale Internazionale a causa dell’avvio di un’inchiesta sui crimini di guerra commessi in Afghanistan da talebani, forze afghane e militari americani. L’Amministrazione di Trump considerava la Corte Penale Internazionale un organismo politico e le sue inchieste una minaccia alla sovranità americana