La sentenza in oggetto induce a considerare con attenzione il percorso argomentativo che supporta la statuizione con cui la Corte ha condannato la Polonia per violazione dell’art. 8 Conv. (previsione che – come è noto – garantisce il diritto al rispetto della vita privata). Trattandosi, infatti, del divieto opposto dalle autorità carcerarie alla prosecuzione di una terapia medica da parte di una persona detenuta (e non semplicemente di questioni legate alla riassegnazione di genere) , ci si sarebbe potuti attendere una condanna per violazione dell’art. 3 Conv. Ma, a una più attenta considerazione della giurisprudenza europea in questa materia, possiamo osservare come la scelta operata dai giudici di Strasburgo in questa occasione sia sostanzialmente conforme a una tendenza <<gloabalisante>> della garanzia contenuta nell’art. 8 che mira a rinforzare significativamente il diritto all’autodeterminazione (cfr. A. Lefebvre, Impossibilité pour une personne transgenre d’accéder à un traitement hormonal en détention et droit au respect de la vie privée, in Dalloz Actualité, 16/9/2024). D’altra parte, è evidente anche in questo caso il pragmatismo che spesso accompagna le decisioni della Corte: a ben vedere, infatti, il limitato arco di tempo entro cui si è verificata l’interruzione della terapia non avrebbe consentito verosimilmente di assumere come raggiunta la soglia di gravità richiesta per ritenere la responsabilità delle autorità nazionali ai sensi dell’art. 3 Conv.
1. La ricorrente, nata nel 1992, is a transgender woman who at the time of lodging the application was legally recognised as a male; her request for legal recognition was granted in 2023 [ <<was legally recognised as male>> al momento della presentazione dell’istanza davanti alla Corte e <<her request for legal recognition was granted in 2023>>] . È stata incarcerata in più occasioni, durante il periodo compreso fra il novembre del 2013 e il maggio del 2024, a seguito di condanne relative a delitti contro il patrimonio. Le pene sono sempre state scontate in male prisons.
In conseguenza di ripetuti gesti di automutilazione avvenuti nel 2018 e, in particolare, di una orchiectomia bilaterale, che imponeva il ricovero in ospedale, il direttore del carcere decise di richiedere l’intervento di un medico specialista. A seguito della visita, il medico rilevò la assoluta necessità di proseguire con un trattamento ormonale, precisando che: <<the lack of immediate provision of this treatment posed a serious health risk resulting in the significant deterioration of its effectiveness>> e che <<that such treatment would have positive effects on her life and health and it would help with the applicant’s rehabilitation>> (§ 9). Il trattamento prescritto dal medico fu autorizzato dalla direzione del carcere, a condizione, però, che i relativi costi fossero a carico del detenuto. Constatato che <<as a result of the therapy the applicant’s appearance changed and her physical and emotional health improved>>, le autorità decisero di permettere la prosecuzione del trattamento ormonale anche in un altro carcere presso cui la ricorrente era stata trasferita. Nel maggio del 2020, però, il direttore dell’istituto penitenziario decise di respingere la richiesta di essere autorizzata a proseguire la terapia fuori dal carcere, in considerazione dell’opinione espressa dal responsabile della sezione medica, a parere del quale <<the administration of female hormones to a man in a prison setting without a thorough psychological-psychiatric expert opinion and endocrinological tests recommended by a consultant endocrinologist was very risky>> (§13). La visita dell’endocrinologo subì, peraltro, un lungo ritardo a causa delle restrizioni legate al diffondersi della pandemia di Covid-19. Nonostante le iniziative intraprese dal legale della ricorrente agli inizi del mese di luglio 2020, il trattamento ormonale non poté proseguire [essere rinnovato] nei tempi programmati e, così, fu impedito alla ricorrente di accedere alla terapia a far data dal 18 luglio e fino al 31 dello stesso mese. Mentre il 24 luglio la ricorrente aveva chiesto, infatti, alla direzione del carcere il permesso per una visita presso un endocrinologo, il legale avanzava istanza, il giorno 29, per l’applicazione di adeguate misure “ad interim” ex art. 39 Rules of Court (sul tema, v., di recente, G. Gentile, Interimmeasures as “weapons of democracy” in the European legal space, in European human rights law review, 2023, issue 1, pag. 18 ss., nonché, la raccolta sistematica della giurisprudenza in materia Factsheet-Interim measures). Accogliendo la richiesta, i giudici di Strasburgo, già il giorno successivo, avevano prescritto al Governo polacco <<to administer the applicant … with the hormones prescribed by her endocrinologist … in doses prescribed, at her own expense, until otherwise decided by an endocrinologist>> (§ 22). La ricorrente aveva così potuto riprendere le cure il 31 luglio. La visita presso l’endocrinologo ebbe, poi, luogo il 5 agosto e si concluse con la prescrizione di proseguire con la terapia ormonale.
Ed è proprio la preclusione alla terapia ormonale, che si è protratta per circa due settimane, che la Corte ha reputato, con la decisione in esame, contrastante con l’art.8 Conv. Una conclusione, che, peraltro, non è stata adottata all’unanimità, stante il voto contrario del giudice polacco Wojtyczek, la cui opinione dissenziente è riprodotta in calce.
2. Merita di essere subito evidenziato, a questo proposito, come la ricorrente avesse prospettato l’impedimento a proseguire la cura come tale da integrare una violazione dell’art. 3 (divieto di tortura) e, (solo) in via accessoria, dell’art. 8 Convenzione europea (<<The applicant complained under Article 3 of the Convention that the refusal to allow her to continue hormone therapy in Siedlce Prison had amounted to inhuman and degrading treatment. She further alleged that the refusal in question also constituted a violation of Article 8 as it had breached her right to respect for her private life and to self-determination>> (§ 65)). I giudici di Strasburgo, però, pur riconoscendo, in via di principio, che <<the refusal to allow the applicant to continue hormone therapy in Siedlce Prison may raise issues under both Articles of the Convention relied upon, namely Articles 3 and 8>>, hanno ritenuto di non condividere questa impostazione. Sulla scorta del canone jura nova curia (<<By virtue of the jura novit curia principle the Court is not bound by the legal grounds adduced by the applicant under the Convention and the Protocols thereto and has the power to decide on the characterisation to be given in law to the facts of a complaint by examining it under Articles or provisions of the Convention that are different from those relied upon by the applicant>> (ECHR, Grand Chamber, 20 March 2018, Radomilja and others v. Croatia (Applications nos. 37685/10 and 22768/12) (§ 126)), ormai da tempo ha trovato affermazione nella giurisprudenza europea, invero, il principio secondo cui la Corte, <<since [it] is master of the characterisation to be given in law to the facts of the case, it does not consider itself bound by the characterisation given by an applicant>>. Nel caso di specie ha ritenuto, pertanto, di procedere d’ufficio a una diversa qualificazione dei fatti denunciati dalla ricorrente, concludendo nel senso che <<it more appropriate to examine the case solely from the standpoint of Article 8 of the Convention>> (§ 66).
3. Scartata, dunque, la strada di una verifica del livello di gravità delle condizioni di detenzione, tipica del giudizio incentrato su una prospetta violazione dell’art. 3 (fra i numerosi contributi della dottrina nella materia de qua, v., per tutti, A. Esposito, sub art. 3, in AA.VV., Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole – B. Conforti – G.Raimondi, Padova, 2001, pag. 56 ss.; per una analitica ricostruzione delle linee evolutive della giurisprudenza della Corte EDU, v. KEY THEME – Article 3: The minimum level of severity test in light of Bouyid v. Begium (last updated: 29/02/2024)), la Corte si preoccupa, piuttosto, di verificare la portata dell’ingerenza operata dalle autorità polacche sul diritto al rispetto della vita privata della ricorrente (<<The Court is therefore prepared to approach the case as one involving an interference with the applicant’s right to respect for her private life (§ 87)). Si è trattato, perciò, di enunciare in primo luogo i criteri di interpretazione cui i giudici europei fanno costantemente riferimento quando debbano essere presi in considerazione i reclami presentati da persone LGBTI, che nella maggior parte dei casi sono fondati, per l’appunto, sulla garanzia contenuta nell’art. 8 Cedu (v., in tal senso, Guide on the case-law of the European Convention on Human Rights – Rights of LGBTI persons (updated on 29 February 2024), pag.17)). A questo proposito, la Corte ha già da tempo evidenziato, invero, (nel senso che <<già a partire dal 2002 con il caso Pretty c. Regno Unito, [la Corte] ha gettato le basi per una piena tutale dell’identità di genere all’interno dell’ordinamento convenzionale>>, v. C.M. Reale, Corte europea dei diritti umani e gender bender: una sovversione mite, in DPCE on line, 2017/2, pag. 412) come il concetto di “vita privata” costituisca <<a broad term not susceptible to exhaustive definition>> e, comunque, tale da ricomprendere non solo <<the physical and psychological integrity of a person, including his or her sexual life>> (V. Corte europea dei diritti dell’uomo, X e Y c. Paesi Bassi, 26/3/1985, (8978/80) § 22), ma altresì <<aspects of an individual’s physical and social identity (Corte europea diritti dell’uomo, sez.II, 10/3/2015, Y.Y. c. Turchia (n. 14793/08), § 56)>>. E, dunque, elementi quali, per es., <<gender identification, name and sexual orientation and sexual life>> vanno a comporre quella sfera personale (“personal sphere”) che trova protezione nella garanzia enunciata dall’art. 8 (v. Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. IV, 22/3/2016, Sousa Goucha c. Portogallo, (n. 70434/12), § 27; Id., Court Plenary, 25/3/1992, B. v. France (n.13343/87), § 63; Id., Court Plenary, 22/10/1981, Dudgeon c. Regno Unito, (n. 7525/76), § 40–41; Id., sez. II, 14/1/2020, Beizaras e Levickas c. Lituania, (n. 41288/15), § 109; Id., sez. III, 27/9/1999, Smith e Grady c. Regno Unito, (nn. 33985/96 e 33986/96), § 71).
D’altra parte, va altresì considerato come, a partire dal celebre caso Pretty c. Regno Unito, I giudici di Strasburgo hanno ritenuto di assumere il principio dell’autonomia personale (“personal autonomy”) come <<underlying the interpretation>> del diritto al rispetto della vita privata (<<Although no previous case has established as such any right to self-determination as being contained in Article 8 of the Convention, the Court considers that the notion of personal autonomy is an important principle underlying the interpretation of its guarantees>> (Corte Europea dei diritti dell’uomo, sez. IV, 29/4/2002, Pretty c. Regno Unito (2346/02), § 61). Questo orientamento, a sua volta, ha indotto la Corte, quando è stata chiamata a valutare l’ambito di applicazione dell’art. 8 in casi che vedevano coinvolti persone transgender, a riconoscere che tale previsione include <<a right to self-determination>>, di cui <<the freedom to define one’s sexual identity>> è una delle componenti essenziali (in più occasioni è stato rilevato, invero, come << the [……..] proceedings touched upon the applicant’s freedom to define herself as a female person, one of the most basic essentials of self-determination>> (Corte Europea dei diritti dell’uomo, sez. III, 12/6/2003, Van Kück c. Germania, § 73; nel senso che <<The right to respect for private life under Article 8 of the Convention applies fully to gender identity, as a component of personal identity. This holds true for all individuals, irrespective of whether an individual has undergone gender reassignment surgery>>, v. Id., sez. V, 6/4/2017, A.P., Garçon e Nicot c. Francia, §§ 94-95; nonché Id:, sez. I, S.V. c. Italia, 11/10/2018, §§ 56-58)).
4. Continuando a muoversi nel solco tracciato da una giurisprudenza ormai consolidata, la Corte rammenta, poi, che, se è fuori discussione che l’art. 8 abbia a oggetto essenzialmente la protezione dell’individuo da interferenze arbitrarie dei poteri pubblici, la sua portata precettiva non può essere ridotta, però, al solo obbligo per lo Stato di astenersi dall’interferire nella vita privata dei singoli (un impegno, cioè, di carattere meramente “negativo”), ma impone altresì l’adozione di azioni di natura “positiva”, funzionali a garantire un effettivo rispetto dei diritti che da quella previsione si irradiano. Sotto entrambi i punti di vista, si tratta, per lo Stato, di procedere a un <<fair balance>> fra interessi concorrenti e contrapposti. Una composizione che ha indotto la Corte a riconoscere ai singoli Stati anche in questa materia un congruo margine di apprezzamento. A questo criterio di adattamento della normativa interna, concepito come strumento di self-restraint giudiziario, i giudici di Strasburgo – come è noto – hanno in più occasioni fatto ricorso, ancorché non espressamente contemplato da alcuna clausola della Convenzione. In ossequio al principio di sussidiarietà, esso rappresenta, invero, <<una misura della discrezionalità concessa agli Stati membri in modo che questi possano rendere effettivi gli standard della Convenzione, tenendo in [debita] considerazione le proprie circostanze e condizioni nazionali>> (v., in tal senso, Y. Arai-Takahashi, The defensibility of the margin fo appreciation doctrine in the ECHR: value-pluralism in the European integration, in Revue Européenne de Droit public, 2001, pag. 1162 ss.). Anche nell’implementazione degli obblighi positivi che originano dalla garanzia enunciata nell’art. 8 Conv., la Corte non ha esitato a riconoscere ai singoli Stati <<a certain margin of appreciation>> e, anzi, ha avuto modo di precisare che, in materie sensibili, <<particularly where the case raises sensitive moral or ethical issues>>, laddove non vi sia uniformità di opinioni fra gli Stati membri per quanto riguarda una adeguata valorizzazione degli interessi in gioco ovvero l’identificazione del strumento di protezione più efficace, <<the margin will be wider>>. Al tempo stesso, però, si sono premurati, in diverse occasioni, di evidenziare <<l’importance particulière que revêtent les questions touchant à l’un des aspects les plus intimes de la vie privée, soit la définition sexuelle d’une personne>> (Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. I, 8/1/2009, Schlumpf c. Svizzera, § 104) e, alla luce di questa considerazione, hanno ritenuto di affermare che <<where a particularly important facet of an individual’s existence or identity is at stake, the margin allowed to the State will normally be restricted>> (v. Id., sez. I, 14/12/2017, Orlandi e altri c. Italia, (nn. 26431/12; 26742/12; 44057/12 and 60088/12), § 203; nonché Id., sez. V, 6/4/2017, A.P., Garçon e Nicot c. Francia, (nn. 79885/12, 52471/13 e 52596/13, § 121)).
Del resto, la Corte più volte ha avuto modo di occuparsi di problematiche connesse a interventi chirurgici di riassegnazione di genere; ma, si è trattato, per lo più, di casi in cui la questione riguardava essenzialmente <<the reimbursement of the costs of gender reassignment surgery>>. Molto diversa è, però, la questione sottoposta ai giudici europei nel caso in esame. La ricorrente, infatti, trovandosi in stato di reclusione, è stata autorizzata dalle autorità carcerarie, in un primo momento, a sottoporsi alla terapia ormonale (associata alla riattribuzione di genere) e ha potuto proseguire nella cura per circa un anno e mezzo. Solo quando è stata trasferita nel carcere di Siedlce le è stato impedito di continuare nel trattamento ormonale. Dunque, << the applicant has not complained of inaction on the part of the domestic authorities, but rather of the fact that the Siedlce Prison authorities prevented her from continuing the treatment which she had initially been allowed to undergo>> ( § 86).
Come già riscontrato in precedenti casi, anche la vicenda oggetto del presente giudizio si caratterizza, dunque, per la circostanza che <<the authorities had initially provided the applicant with a personal assistant>>. Pertanto, <<the applicant is (……) complaining not of a lack of action, but rather of the decision (……) to reduce the level of care provided to her and to no longer provide her with a personal assistant>> (cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. IV, 20/2/2024, Diaconeasa c. Romania (n.53162/21), § 50). Analogamente, <<the Court approached from the standpoint of an interference with the right in issue, given that it concerned the refusal of a benefit which had been previously provided (Id., sez. IV, 20/5/2014, McDonald c. Regno Unito (n. 4241/12/), §§ 48 and 49).
Alla luce di queste precedenti prese di posizione, la Corte ha potuto concludere che (anche) nel caso di specie ci sia stata una “interferenza” con il diritto della ricorrente al rispetto della propria vita privata (<<The Court is therefore prepared to approach the case as one involving an interference with the applicant’s right to respect for her private life>>) (§ 87)). Si è trattato, perciò, di verificarne la legittimità sulla scorta dei tre requisiti, fissati nel par. 2 dell’art. 8, che costituiscono le condizioni eccezionali di ammissibilità: “in accordance with the law”, pursuing one or more of the legitimate aims listed therein and being “necessary in a democratic society” in order to achieve the aim or aims concerned. Per quanto riguarda i primi due requisiti, i giudici hanno ritenuto che nel caso di specie siano indubitabilmente riscontrabili. La base legale per approntare cure mediche nei riguardi di persone detenute, in particolare, deve essere rinvenuta – anche sulla scorta delle indicazioni fornite da terzi intervenuti nel giudizio – nell’art. 115 § 6 del Code of Execution of Criminal Sentences: questa previsione costituisce, per l’appunto, <<the legal basis for the interference at issue, which was therefore “in accordance with the law”>> (§ 89). Analogamente, per il secondo: la Corte <<accepts that the interference pursued a legitimate aim, namely the protection of the applicant’s health>> (ivi), ritenendo di poter accogliere la “versione” fornita dalle autorità polacche, secondo cui il direttore del carcere di Siedlce si era limitato a sospendere l’accesso al trattamento ormonale in attesa di un consulto con lo specialista endocrinologo (poiché, infatti,<<the hormone therapy in question had been prescribed by Dr D., who was a sexologist, whereas an endocrinologist was competent in relation to hormonal treatment [……..] an endocrinologist was authorised to carry out an examination of a patient’s hormone levels>>; <<[the Polish authorities] had taken all necessary steps which could have been required to respect the applicant’s right to personal development with regard to her physical and psychological integrity as a transgender person>> (§ 75)).
5. Avuto riguardo, però, al requisito che impone di verificare se l’interferenza “can be regarded as necessary in a democratic society”, Ia Corte perviene a una conclusione diversa e ritiene la violazione del precetto contenuto nell’art. 8. Al fine di valutare pienamente l’impatto che la decisione di sospendere il trattamento ormonale ha avuto sul diritto della ricorrente alla autodeterminazione della libertà sessuale, invero, la Corte si preoccupa, in primo luogo, di mettere in evidenza come, considerati <<the numerous and painful interventions involved in gender reassignment and the level of commitment and conviction required to achieve a change in social gender role>>, non possa assolutamente ipotizzarsi che <<there is anything arbitrary or capricious in the decision taken by a person to undergo such a procedure>> (§ 91) (v., in tal senso, già Corte europea dei diritti dell’uomo, Grand Chamber, 11/7/2002, Christine Goodwin c. Regno Unito, (no. 28957/95), § 81).
Nel caso di specie, poi, alla ricorrente – che si era procurata una automutilazione genitale – era stata diagnostica una disforia di genere e, di conseguenza, suggerito il ricorso a un trattamento ormonale sostitutivo. Anzi, gli specialisti che avevano avuto occasione di visitarla <<considered it to be necessary>>, certificando che <<such treatment was essential for the applicant’s physical and mental health>> e che <<the interruption of the treatment would pose a serious health risk>> (§ 92). Ciò rilevato, dunque, la Corte non ha avuto dubbi nel constatare come le autorità nazionali avessero a disposizione significativi elementi per considerare che la terapia ormonale fosse un trattamento medico appropriato in relazione allo stato di salute della ricorrente. Del resto, tale terapia era stata somministrata alla ricorrente nelle carceri in cui si era stata reclusa prima del suo trasferimento nella prigione di Siedlce e aveva avuto un effetto benefico sulle sue condizioni di salute (come risulta attestato dalle certificazioni redatte dai medici carcerari). In questa situazione, il rifiuto opposto dal direttore del carcere di Siedlce alla richiesta di proseguire la cura ormonale (con la conseguente interruzione del trattamento prima che avesse luogo la visita da parte dello specialista) comporta, a parere dei giudici di Strasburgo, che <<the burden placed on the applicant to prove the necessity of the prescribed medical treatment by undergoing an additional consultation with an endocrinologist appears disproportionate in the circumstances of the present case>> (§ 93). Nè a una diversa conclusione può indurre la considerazione che l’interruzione del trattamento ormonale si è verificata per un periodo relativamente breve, tra il 18 luglio e il 31 luglio 2020. Va considerato, infatti, che la ricorrente ha ricevuto il farmaco il 31 luglio 2020, non a causa di un improvviso ripensamento da parte delle autorità polacche, ma come conseguenza dell’applicazione da parte della Corte di misure provvisorie ai sensi dell’art. 39 del Regolamento (§ 95). D’altra parte, lo stesso Governo non ha ritenuto di argomentare, nel corso del giudizio, alcuna ragione a giustificazione della decisione del direttore del carcere di vietare (ancorché temporaneamente) la prosecuzione della cura, non facendo alcun riferimento a eventuali effetti dannosi che la terapia avrebbe potuto avere sulla salute fisica e mentale del ricorrente né adducendo eventuali difficoltà di ordine tecnico o finanziario che avrebbero potuto derivare dal prolungamento della cura ormonale (la Corte avendo cura di evidenziare, a questo proposito, che <<the applicant bore the cost of the medications herself, thus imposing no additional costs on the State>>) (§ 94).
6. Alla luce di tutti questi elementi, la Corte ha ritenuto, dunque, che, nel caso di specie, <<the authorities failed to strike a fair balance between the competing interests at stake, including the protection of the applicant’s health and her interest to continue the hormone therapy associated with gender reassignment>>. Una conclusione che, agli occhi dei giudici di Strasburgo, pare, altresì, capace di valorizzare adeguatamente <<the applicant’s particular vulnerability as an imprisoned transgender person undergoing a gender reassignment procedure, which required enhanced protection from the authorities>>, coerentemente, del resto, a quanto richiesto dalla Raccomandazione (2010)5 (Misure volte acombattere la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere) per assicurare adeguata protezione e rispetto alla identità di genere dei detenuti transgender (§ 96).
Da questo punto di vista, la decisione in esame si colloca pienamente nell’alveo della giurisprudenza inaugurata nel 2002 con col caso Pretty c. Regno Unito (Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. IV, 29/4/2002, (n. 2346/02)), che aveva gettato le basi per una piena tutela dell’identità di genere all’interno dell’ordinamento convenzionale. Ciò che continua a destare qualche perplessità è, però, la conferma dell’idea – sottesa anche alla decisione in esame – che il percorso di riassegnazione di genere debba necessariamente essere preceduto da una diagnosi medica. Si può convenire, invero, sulla considerazione che il richiedere questo “passaggio” risponda alla necessità di preservare l’interesse delle persone coinvolte, affinché non intraprendano avventatamente terapie mediche o medico-chirurgiche. Ma, nemmeno si può negare che, così ragionando, la Corte continua ad avallare e una visione secondo cui l’identità di genere, lungi dal rientrare in un processo di mera autodeterminazione, necessiti di essere validata da terzi (i medici) e con ciò sancendo la sostituzione degli specialisti alla singola persona nelle valutazioni attinenti alla sua sfera più intima. Tutto ciò non pare conformarsi, però, ai più recenti orientamenti della scienza medica nella materia de qua. Basti ricordare a questo proposito come la condizione transgenere, sebbene ancora presente nel Manuale Diagnostico redatto dalla American Psychiatric Association, a partire dalla versione redatta nel 2013, è stata rimossa dal capitolo dedicato ai Disordini sessuali e “allocata” in un capitolo a parte (fra l’altro, mutando la sua dicitura da Disordine dell’identità di genere a Disforia di genere). Con ciò si è voluto chiaramente sottrarre le persone transgender allo stereotipo che le vedrebbe come malate e disturbate, sottolineando come la Disforia di genere debba essere apprezzata, piuttosto, come una condizione di stress clinicamente significativa, associata alla non conformità di genere, e non di per sé una condizione mentale patologica (cfr. C.M. Reale, Corte europea dei diritti umani e gender bender: una sovversione mite, in DPCE on line, 2017, n. 2, pag. 413).