Con la sentenza ivi in commento, la Consulta è intervenuta su un tema strettamente connesso all’universo penitenziario, ovvero la duplice essenza della restrizione della libertà personale: da un lato limitazione della libertà di movimento oggetto di coercizione fisica, e dall’altro deminutio giuridica nei confronti di chi la subisce.
Il giudizio de quo ha ad oggetto gli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33 (Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19), i quali stabiliscono che «[è] fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura della quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al virus COVID-19, fino all’accertamento della guarigione o al ricovero in una struttura sanitaria o altra struttura allo scopo destinata», e che «[s]alvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265».
Della loro legittimità dubitava il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, il quale riteneva avere il legislatore violato il disposto dell’art. 13 Cost.. In particolare incidendo – a suo avviso – sulla libertà personale, i provvedimenti restrittivi contenuti nelle norme sopra menzionate dovevano essere adottati dall’autorità giudiziaria o, comunque, da questa convalidati.
Tale convinzione si basava sulla “assolutà identità” tra dette restrizioni e le misure degli arresti e della detenzione domiciliari (artt. 284 cpp e 47-ter L. 354/1975): in entrambe i casi, infatti, l’individuo è costretto a stare nel proprio domicilio senza poter uscire, con indubbia limitazione della sua libertà di movimento.
A fronte di ciò, tuttavia, la Corte Costituzionale accoglieva in toto le osservazioni dell’Avvocatura Generale dello Stato e dichiarava infondata la questione di legittimità costituzionale, riconducendo i provvedimenti restrittivi emanati nei confronti di persone affette da coronavirus a limitazioni della libertà di circolazione (art. 16 della Costituzione), non presidiata dalla riserva di giurisdizione.
Nella parte motiva, la Consulta opera il dovuto raffronto tra le due libertà in questione, analizzando, anche sulla scorta della giurisprudenza pronunciatasi in materia, l’essenza dei due istituti, entrambi costituenti chiare esplicazioni della superiore libertà di autodeterminazione dell’individuo nella dimensione dinamica della sua corporeità.
Ma, se la prima è espressamente “inviolabile” e soggetta ad una doppia riserva di legge e di giurisdizione, la seconda, pur prevedendo possibili limitazioni disposte esclusivamente dalla fonte primaria e per motivi di sanità o di sicurezza (mai ammesse, invece, per ragioni politiche), non richiede l’intervento del giudice per la sua emanazione.
Sintetizzate, così, le differenze formali e procedurali che connotano le rispettive libertà, il vero interrogativo risiede nella differenza sostanziale tra esse: che differenza c’è, in concreto, tra la libertà personale e quella di circolazione?
Riprendendo alcuni dei suoi precedenti (in particolare, la sentenza n. 68 del 1964), la Corte traccia un confine che vorrebbe essere netto, ma che, purtroppo, rischia di essere oggetto di fraintendimenti da parte dell’interprete (rischio di cui la Consulta è, peraltro, ben consapevole: si veda, in particolare, l’incipit del punto 5.1 della sentenza).
Specificamente, ciò che distingue la libertà personale dalla libertà di circolazione è la possibilità di pretendere coercitivamente il rispetto di una sua eventuale limitazione. Con le parole dello stesso Giudice delle Leggi, «qualora (…) il legislatore intervenga sulla libertà di locomozione, indice certo per assegnare tale misura all’ambito applicativo dell’art. 13 Cost. (e non dell’art. 16 Cost.) è che essa sia non soltanto obbligatoria (tale, vale a dire, da comportare una sanzione per chi vi si sottragga), ma anche tale da richiedere una coercizione fisica». Ciò, anche laddove la restrizione sia imposta per motivi riguardanti la sanità o la sicurezza pubblica: infatti, «qualora sia previsto il ricorso alla forza fisica al fine di instaurare o mantenere in essere, con apprezzabile durata, una misura restrittiva della facoltà di libera locomozione, allora la circostanza che la legge abbia introdotto tale misura in via generale per motivi di sanità non comporta che essa vada assegnata alla garanzia costituzionale offerta dall’art. 16 Cost., e sfugga così alla riserva di giurisdizione, posto che detto elemento coercitivo implica necessariamente che sia l’autorità giudiziaria ad applicare la restrizione, o a convalidarne l’esecuzione provvisoria». A fronte di ciò, continua la Corte, «l’obbligo, per chi è sottoposto a quarantena per provvedimento dell’autorità sanitaria, in quanto risultato positivo al virus COVID-19, di non uscire dalla propria abitazione o dimora, non restringe la libertà personale, anzitutto perché esso non viene direttamente accompagnato da alcuna forma di coercizione fisica, né in fase iniziale, né durante la protrazione di esso per il corso della malattia».
Tuttavia, pare legittimo chiedersi se la comminatoria di una sanzione penale non possa comunque essere considerata “coercizione fisica” in senso proprio. La violazione del provvedimento restrittivo, infatti, non è sfornita di sanzione, anzi: di tale disobbedienza alla norma si risponde proprio con il sacrificio della libertà personale, e, quindi, mediante diretta coercizione.
La stessa sentenza, pur escludendo detta conclusione sulla scorta del fatto che «la normativa non prevede neppure alcuna forma di sorveglianza in grado di prevenire la violazione» (in realtà sempre presente, sulla base dell’art. 55 c.p.p.), mostra una certa ambiguità nell’affermare che «[i]l destinatario del provvedimento è infatti senza dubbio obbligato ad osservare l’isolamento, a pena di incorrere nella sanzione penale, ma non vi è costretto ricorrendo ad una coercizione fisica».
Al predetto criterio della coercizione – intesa, in sintesi, come la possibilità di costringere il soggetto al rispetto dell’eventuale provvedimento restrittivo “con la forza” – si affianca anche un altro indice di personalità della libertà aggredita, ovvero l’incisione, mediante il provvedimento, della libertà morale del soggetto, tale da comportarne una “sorta di degradazione giuridica”, una “menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona”.
Questa deminutio personae avviene certamente per mezzo di tutti quegli istituti che gravitano all’interno del sistema penale e penitenziario e che stigmatizzano l’individuo nei confronti della società, oltre a limitarne la libertà di locomozione a titolo (non solo) di pena, (ma anche) di misura cautelare, di misura di prevenzione, di misura di sicurezza o di misura alternativa.
Tale secondo criterio, precisa la sentenza, si atteggia a criterio supplementare, invocabile nei casi dubbi e non costituente (a differenza della coercizione) criterio dirimente: «ove la restrizione sia ottenuta mediante coercizione fisica, essa continua ad afferire alla libertà personale, quand’anche non rechi degradazione giuridica». Ebbene, pur avendo la degradazione giuridica funzione di indice sintomatico della limitazione della libertà personale, è la coercizione fisica a fare da divisore tra questa e la libertà di cui all’art. 16 Cost..
Sulla base di questa lettura, si evince che le due libertà, pur appartenenti al genus della libertà di autodeterminazione, costituiscono di essa due species differenti, l’una più rilevante (e, non a caso, più tutelata) rispetto all’altra; e proprio alla seconda viene ricondotta la limitazione promanante dalle norme di cui agli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33.
Qui il testo della sentenza.
Guglielmo Sacco