Con ordinanza emessa il 15 febbraio scorso, il Tribunale di Sorveglianza di Firenze ha dichiarato rilevante e non manifestatamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla difesa nell’atto di impugnazione avverso il rigetto dell’istanza di revoca della misura di sicurezza, degli artt. 177 co.1 e 230 co.1, n.2, c.p. per violazione degli artt. 3 e 27 della Costituzione, “nella parte in cui: 1) stabiliscono l’obbligatoria applicazione della misura della libertà vigilata al condannato alla pena dell’ergastolo ammesso alla liberazione condizionale; 2) stabiliscono la durata della libertà vigilata in misura fissa e predeterminata; 3) non prevedono la possibilità per il Magistrato di sorveglianza di verificare in concreto durante l’esecuzione della libertà vigilata l’adeguatezza della sua permanente esecuzione alle esigenze di reinserimento sociale del liberato condizionalmente e non ne consentono, per l’effetto, la revoca anticipata”.
La vicenda – oggetto della questione che verrà sottoposta al vaglio della Consulta – origina dalla sentenza di condanna all’ergastolo emessa nei confronti di una persona ritenuta colpevole del delitto di associazione mafiosa, duplice omicidio di stampo mafioso e detenzione illegale di armi commessi fra luglio e novembre del 1990. Successivamente, il Tribunale di Sorveglianza di Firenze, sciolto il cumulo, aveva disposto la concessione della liberazione condizionale, con provvedimento emesso il 29 ottobre 2020. Trasmessi gli atti al Magistrato di sorveglianza di Firenze, quest’ultimo aveva disposto la misura della libertà vigilata, ai sensi dell’art. 230 c.1 n.2 c.p. A questo punto, la difesa aveva presentato istanza di revoca di tale misura, ma era stata rigettata dal Magistrato, che, tra l’altro, aveva ritenuto di dichiarare la piena legittimità costituzionale dell’art. 177 c.p. Contro tale decisione, era stato proposto appello, ex art. 680 c.p.p., con il quale la difesa tornava ad evidenziare dubbi di legittimità costituzionale degli artt. 230 co.1 n.2 e 177 co.1 c.p., per l’appunto, nella parte in cui impongono al Magistrato di sorveglianza l’applicazione della misura di sicurezza, nonostante il sicuro ravvedimento del soggetto. A questo punto, il Tribunale, ritenendo di condividere le argomentazioni della difesa, ha deciso di sollevare la questione di legittimità costituzionale nei termini soprariportati.
Merita evidenziare subito come un passaggio decisivo possa considerarsi la definizione della misura prevista dal n.2 dell’art. 230 c.p. In effetti, si tratta, come noto, dell’ipotesi di libertà vigilata maggiormente problematica fra quelle enunciate nella norma codicistica. Nell’atto di appello, la difesa ritiene di evidenziarne la natura afflittiva, posto che essa importa notevoli restrizioni a fondamentali diritti del condannato, e, d’altra parte, stando alla migliore dottrina, le misure di sicurezze devono ricondursi al <genere> sanzione penale. Il Tribunale, da parte sua, ritiene, invece, che sia non necessario affrontare la questione, osservando espressamente come si possa prescindere dalla natura che si voglia attribuire alla misura in esame. Il punto focale della questione per il giudice di Firenze si incentra nella circostanza che la dizione letterale contenuta nelle norme in oggetto non consente in alcun modo al giudice di apprezzare come ben avviato o già definito il percorso di reinserimento sociale del soggetto e conseguentemente impedisce all’autorità giudiziaria di disporre la revoca della libertà vigilata prima della sua scadenza, se ciò appaia confacente allo scopo. D’altra parte, a parere del Collegio, nessuna interpretazione ‘adeguatrice’ è consentita, dal momento che il legislatore non dà margini di discrezionalità al giudice né al momento dell’applicazione, sull’an e sul quantum della misura e, per l’appunto, nemmeno sull’eventuale successiva revoca della stessa per sopravvenienze favorevoli. In altre parole, il Magistrato di sorveglianza è chiamato a disporre la libertà vigilata che consegue alla liberazione condizionale in un ambito di predeterminazione legislativa, in conformità a una precisa scelta del legislatore dell’epoca, che ha evidentemente inteso perseguire “ex post” la risocializzazione del condannato ammesso alla liberazione condizionale, ancorché compiutamente realizzata e, allo scopo, è stata, per l’appunto, imposta l’obbligatoria applicazione di una misura afflittiva in aggiunta, cui è attribuita non solo una durata fissa, ma altresì esclusa ogni possibilità di essere eliminata nel caso di emergenze (…) favorevoli al soggetto.
Si pone, dunque, legittimamente il dubbio, per il Tribunale, di valutare la compatibilità degli artt. 177 e 230 c.p. con i principi costituzionali dettati in materia e, in particolare, con le esigenze di prevenzione speciale e con la finalità rieducativa, posto che l’obiettivo della rieducazione è già di per sé raggiunto in quanto insito in quel sicuro ravvedimento che sta a fondamento della liberazione condizionale. Osserva, tuttavia, il Collegio come, proprio in virtù della ineludibile applicazione e mantenimento della libertà vigilata al condizionalmente liberato, questo istituto rimanga sospeso in un instabile equilibrio fra la prospettiva afflittivo-repressiva e le ragioni special-preventive, dal momento che alla misura concessa sulla base del ravvedimento del condannato segue l’applicazione di una misura di sicurezza vocata al controllo poliziesco ed altrimenti fondata sulla pericolosità sociale. Proprio tale automatismo, che – coerentemente ad una scelta di politica criminale risalente nel tempo – non si presta in nessun caso a essere modulato dall’intervento del magistrato di sorveglianza si presenti, a parere dei giudici di Firenze, in contrasto sia con il finalismo rieducativo che deve assistere ogni sanzione penale (art 27 Cost.) sia con il principio di ragionevolezza che discende dal divieto di trattare allo stesso modo situazioni che invece presentano caratteristiche differenti (art. 3 Cost.).Non manifestatamente infondata risulta, quindi, la questione di legittimità costituzionale delle norme di cui all’art. 177 co. 1 c.p. e 230 co. 1 n.2 c.p. per violazione dei principi costituzionali anzidetti, nella misura in cui negano ogni spazio di discrezionalità del giudice, prevedendo un automatismo sanzionatorio, nell’an e nel quantum, irragionevole e discriminante e che prescinde dalle diverse considerazioni di risocializzazione raggiunta dal singolo condannato.
Qui il testo dell’ordinanza.
A cura di Diletta Niccoli