Il prossimo 23 febbraio la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, riunita nella Grande Camera, si pronuncerà in merito alla richiesta di estradizione avanzata dagli Stati Uniti d’America nei confronti di una propria cittadina, ricercata per i reati di omicidio aggravato e distruzione di cadavere commessi nella Contea di Eaton, Stato del Michigan (U.S.A.), nel 2002.
La Corte – nella sua massima composizione – dovrà valutare se la disciplina statunitense in punto di accesso ai benefici penitenziari, in caso di condanna all’ergastolo, sia compatibile con i princìpi fondamentali sanciti a livello di Carte sovranazionali, ed in particolare con l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che, come noto, statuisce che «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pena o trattamenti inumani o degradanti» .
Nel corso degli anni la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha svolto un ruolo fondamentale nella individuazione dei limiti che l’art. 3 CEDU impone al potere degli Stati di infliggere pene di durata indefinita. In particolare ha analizzato il profilo della compatibilità con la Convenzione di sistemi che non ammettano, nella fase esecutiva, la possibilità di una revisione della pena dell’ergastolo. Con riferimento all’applicazione extraterritoriale l’articolo richiamato prevede, infatti, che in caso di estradizione, espulsione o allontanamento dal territorio di uno Stato firmatario della Convenzione viga un obbligo positivo per tale Stato di assicurarsi che il soggetto allontanato non rischi di subire un trattamento contrario all’articolo 3.
Tale problematica insorge frequentemente in relazione alle domande di estradizione presentate dagli Stati Uniti. Così la questione del cosiddetto «Imprisonment for life without eligibility for parole» è stata ed è tuttora oggetto di numerose vicende poste all’attenzione della Corte EDU.
Il caso in esame ne è un ulteriore esempio. L’estradanda, Beverly Ann McCallum, cittadina statunitense e destinataria di un mandato di arresto internazionale emesso per i reati di cui sopra, in caso di riconoscimento della penale responsabilità sarebbe destinata, nel paese d’origine, all’ergastolo «ostativo», senza la possibilità dunque di accedere ad alcun permesso premio, in particolare a quello della liberazione condizionale.
L’impossibilità di commutare o ridurre la pena in fase esecutiva, dopo un periodo minimo di tempo predeterminato per legge, costituirebbe, alla luce dell’interpretazione estensiva che si dà dell’art. 3 CEDU, un trattamento inumano e degradante, violando il c.d. «diritto alla speranza» più volte richiamato dalla Corte di Strasburgo (in tal senso si veda Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 13 giugno 2019, Marcello Viola c. Italia, n° 2).
Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Roma, prima, e la Corte di Cassazione (Cass., Sez. VI, 25 settembre 2020, n° 7262), poi, hanno valutato sussistenti le condizioni per l’estradizione della cittadina statunitense. Quest’ultima ha così proposto ricorso alla Corte di Strasburgo, lamentando la violazione dell’articolo 3 citato.
Non resta che attendere la pronuncia della Grand Chamber. Questa auspicabilmente segnerà un nuovo e decisivo passaggio nella perimetrazione dei confini applicativi dell’articolo 3 CEDU e avrà importanti ripercussioni sul fronte interno, anche alla luce della diversa, ma affine questione oggetto del comunicato stampa della Corte costituzionale – datato 11 maggio 2021 – in tema di ergastolo ostativo e reati di mafia.
Di seguito il testo del comunicato della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nonché della sentenza della Corte di Cassazione (Cass., Sez. VI, 25 settembre 2020, n° 7262).
comunicato della Corte Europea
A cura di Giulia Vagli