Il libro si pone in linea di continuità con l’opera che gli stessi Autori hanno licenziato cinque anni prima, dal titolo “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia”, che, del resto, chiudeva proprio con un capitolo che gettava lo sguardo sulla giustizia riparativa. Anche grazie a queste riflessioni –puntuali eppure agilmente sviluppate– risulta ora più chiara la specificità di un paradigma di giustizia che si discosta dalle logiche retributive e non si identifica in quelle risocializzative (p. 124), perché si libera in radice della sanzione come raddoppio del male. Al contempo, le trame descrittive evidenziano che l’autonomia della giustizia riparativa non si traduce in una impossibilità di interlocuzione con il sistema punitivo, ma semmai arricchisce e completa il “servizio giustizia” con risposte a bisogni individuali che sono altrimenti destinati a non ricevere cura.

Lungi dall’atteggiarsi come un sequel, il più recente pamphlet riesce a evidenziare bene la complementarità tra giustizia punitiva e giustizia riparativa non solo nelle scelte compiute dal legislatore italiano con la c.d. riforma Cartabia del 2022, ma anche nella storia, a partire da quella remota. Con uno sguardo che parte dagli antichi testi sacri (p. 31), apre a una dimensione antropologica e si posa su alcune delle più prossime esperienze riparative che sono state sviluppate in diversi continenti (p. 35), si giunge a tratteggiare la giustizia riparativa moderna con un excursus che, nella sua rapidità, ben svela la costante dell’obiettivo riparativo come bisogno di giustizia che, nei secoli e nelle varie latitudini, si giustappone alla reazione vendicativa e punitiva.
Restringendo la focale sull’esperienza italiana, si sottolinea un tratto tipico della restorative justice come fenomeno bottom–up, che parte dalla prassi (in particolare, gli uffici di Bari, Torino e Milano che per primi praticarono il paradigma riparativo nella prima metà degli anni ’90) e consegna esperienze di particolare rilievo (tra le quali non poteva mancare quella narrata nel Libro dell’Incontro) per trovare prima piccoli pertugi normativi e, infine, traduzione in un impianto così ampio e articolato da essere definito in termini di «disciplina organica». Particolarmente efficace è la scelta di presentare l’esperienza riparativa come una rappresentazione teatrale, suddivisa in Prologo, Atti e Scene: richiama l’insegnamento della mediazione umanistica che Jacqueline Morineau ha trasmesso a molti operatori della giustizia riparativa anche in Italia, sottolinea l’importanza della capacità –che accomuna la pratica teatrale e quella riparativa– di indossare i panni dell’Altro, aiuta a seguire il tracciato del sentiero riparativo senza ricorrere alla costrizione procedurale tipica degli itinerari della giustizia punitiva “formale”.

Preme, semmai, sottolineare come sul “palcoscenico riparativo” (rigorosamente riservato, ossia costruito come un «teatro dell’umano senza pubblico», p. 80), si reciti “a soggetto”, non solo perché non ci sono battute e ritmi preconfezionati, ma anche perché qui si rifugge l’idea di attribuire ruoli fissi, etichettanti e costringenti in una parte, per “mettere in scena” la complessità umana dell’esperienza di ingiustizia. E, da questo punto di vista, due sono le notazioni che correttamente accompagnano la rappresentazione offerta da Marcello Bortolato e Edoardo Vigna: quanto ai protagonisti, affiora subito il ruolo centrale che nelle dinamiche riparative assume la vittima di reato (p. 69), che qui può trovare una risposta ai bisogni di ascolto, di riconoscimento e di parola che restano esiliati dalla giustizia punitiva; quanto agli sviluppi “scenici”, la duttilità del copione assegna agli attori la gestione dei tempi, della parola e della costruzione del finale, con l’obiettivo di assecondare un percorso trasformativo (p. 14), che permetta ai protagonisti di uscire da quel teatro un po’ diversi da come vi erano entrati, perché alleggeriti delle conseguenze emotive dell’esperienza di ingiustizia agìta e patita. Ecco che, seppure sovente definita come rivoluzionaria (p. 16 e 124) o scandalosa (p. 22), la giustizia riparativa finisce per presentarsi nei termini di una giustizia necessaria per accogliere e dare risposta a quelle eccedenze non trattate né trattabili dal sistema punitivo, in quanto legate alla sfera emotiva e al vissuto individuale. Sostituita la terribilità della «vendetta pubblica» con la cura dei bisogni individuali offerta dall’incontro riparativo, allora, non solo si supera l’impianto carcerocentrico, ma si apre spazio a un nuovo umanesimo penale (p. 24) che, parafrasando Martha Nussbaum, sappia «aggiustare il passato senza infliggere dolore nel presente» (p. 25).