7 Aprile 2025

Presumere e rieducare: un ossimoro. Ma, non troppo. Brevi riflessioni a margine di una recente sentenza della Corte costituzionale

A cura di Nicolò Di Paco e Mariagisa Landolfi

Qualche nota di contesto: il caso e le questioni di legittimità

Con la sentenza n. 24 del 7 marzo 2025, la Corte costituzionale è tornata nuovamente sul tema degli automatismi che operano nella fase dell’esecuzione della pena, soffermandosi – questa volta – sul meccanismo congegnato dall’art. 30-ter, co. 5, OP, che esclude l’accessibilità ai permessi premio per quei soggetti che siano stati condannati o siano imputati per un delitto doloso commesso durante l’espiazione della pena o l’esecuzione di una misura restrittiva della libertà personale, per un periodo di due anni a decorrere dal fatto. Il caso di specie scaturisce dalla richiesta di accedere all’istituto premiale, avanzata da parte di un soggetto condannato alla pena della reclusione che, sebbene già avviatosi in un percorso trattamentale, è stato successivamente rinviato a giudizio per il tentativo di introdurre in carcere, al rientro da un permesso, un quantitativo di stupefacente da consegnare ad altro detenuto. A fronte di ciò e tenuto conto che il fatto contestato si sarebbe consumato entro il biennio, il magistrato di sorveglianza osserva che, stando al tenore letterale del co. 5 della citata disposizione, l’istanza dovrebbe essere considerata inammissibile. In proposito, viene evidenziato come detta preclusione, quandanche limitata nel tempo, assuma i caratteri di una «presunzione assoluta di temporanea inidoneità», tale da non lasciare alcun margine valutativo al giudice sui possibili progressi compiuti dal medesimo soggetto nell’ulteriore periodo detentivo, frustrando irrimediabilmente le esigenze di individualizzazione del percorso trattamentale del condannato e, dunque, la finalità rieducativa della pena. Ancora, resterebbe priva di rilevanza finanche «una delibazione relativa alla concreta gravità del fatto di cui l’interessato risulta imputato, per come allo stato evincibile dagli atti» (cfr. pt. 1.2 della sentenza). A ciò si aggiunge un ulteriore aspetto, pur precisato dal giudice rimettente: il pregiudizio che il condannato si troverebbe a patire potrebbe dipendere anche da una mera imputazione, non essendo richiesta la definitività dell’accertamento. Ne conseguirebbe, dunque, una compromissione della presunzione di non colpevolezza, sull’altare delle istanze sanzionatorie e repressive. Sulla base di tali rilievi, la questione viene rimessa alla Corte costituzionale, la quale, lo si anticipa sin da ora, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter, co. 5, OP. La pronuncia appare senz’altro di primario interesse, non solo in ragione dell’esito a cui si perviene, ma anche – e soprattutto – per le motivazioni offerte dal Giudice delle leggi. Quanto a queste ultime, deve segnalarsi come si proceda essenzialmente lungo due direttrici, che, sebbene distinte, risultano estremamente collegate tra loro: da un lato, la presunzione di non colpevolezza, e, dall’altro, la finalità rieducativa della pena. Si tratta, però, di un percorso argomentativo che, specialmente nelle ultime battute, lascia piuttosto perplessi, nella misura in cui sembra finire per contraddirsi. È bene, allora, procedere con ordine nell’analisi, prendendo le mosse proprio dal primo dei due richiamati aspetti.

I rilievi in materia di presunzione di innocenza

Anzitutto, si impone una precisazione. È noto che la garanzia in parola debba essere letta, in un tempo, quale regola di giudizio e quale regola di trattamento: intesa nella sua prima “configurazione”, essa concretizza il canone dell’in dubio pro reo, ponendo l’onere della prova della penale responsabilità dell’imputato sull’organo dell’accusa; nell’altra accezione, comporta il divieto di considerare l’imputato colpevole e, pertanto, di punirlo prima di una condanna definitiva (per una ricostruzione più approfondita, si rinvia, su tutti, a P.P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, Giappichelli, Torino, 2009, passim). Non si tarderà a comprendere come a venire in gioco nel caso in esame sia questa seconda accezione della presunzione: secondo il giudice a quo la disposizione censurata obbligherebbe il magistrato di sorveglianza «a ritenere l’interessato», imputato in altro procedimento, «alla stregua di un condannato in via definitiva», senza però che la sua responsabilità sia stata accertata con pronuncia passata in giudicato (cfr. pt. 1.2). Fatta questa doverosa premessa, vale altresì la pena ricordare come un’analoga questione di incostituzionalità fosse stata ritenuta infondata dalla Corte con la sentenza n. 296 del 30 luglio 1997. Al tempo, il Giudice delle leggi aveva, infatti, catalogato i dubbi di legittimità dei remittenti come «esorbitant[i] rispetto alle finalità perseguite dall’art. 27, secondo comma, della Costituzione»; in particolare, si affermava che la presunzione era da ritenersi «coessenzialmente legata al fatto di reato» in ragione del quale era stata esercitata l’azione penale e, quindi, non poteva, per contro, attorniare aspetti che riguardavano «il trattamento penitenziario conseguente al delitto per cui [era] in corso l’esecuzione della pena». In caso contrario, osservavano i giudici di Palazzo della Consulta, «si [sarebbe dovuto] ritenere vulnerato l’art. 27, secondo comma, tutte le volte in cui vi [fosse stato] un effetto collegato, non irragionevolmente», all’elevazione di un’imputazione o all’emissione di una sentenza di condanna non ancora definitiva (cfr. pt. 5 della sentenza). Ebbene, nel rimeditare la propria decisione, la Corte muove da un assunto di base: le conclusioni a cui era giunta nel 1997 risultano oggigiorno «distonic[he] rispetto alle declinazioni conferite medio tempore alla presunzione di non colpevolezza» dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, dal diritto unionale, nonché dalla propria giurisprudenza (cfr. 4 della sentenza). Sul primo versante, il riferimento corre alla sentenza del 12 luglio 2013 resa dalla Grande camera della Corte di Strasburgo nel caso Allen c. Regno Unito, nella quale il giudice alsaziano rileva come la presunzione di innocenza, ex art. 6, § 2, CEDU, non configuri una garanzia esclusivamente processuale, ma estenda la sua vis anche al di fuori del procedimento al fine di «protect individuals who have been acquitted of a criminal charge, or in respect of whom criminal proceedings have been discontinued, from being treated by public officials and authorities as though they are in fact guilty of the offence charged» (cfr. pt. 94. In proposito, si veda R. Orlandi, La duplice radice della presunzione di innocenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, p. 638, secondo il quale la «sentenza Allen. c. Regno Unito […] ha affermato per via giurisprudenziale un nuovo concetto della presunzione di innocenza»). Sul piano eurounitario, vengono in rilievo l’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea («[o]gni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata») e l’art. 4, § 1, della direttiva (UE) 2016/343 («sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali») che ha posto l’obbligo per gli Stati di adottare «le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole» (per alcune perplessità sulla lettera della disposizione, si veda  N. Pascucci, Il dies ad quem della presunzione di innocenza in caso di condanna: “accertamento legale della colpevolezza e “definitività della sentenza”, in LP, 15 dicembre 2023, spec. pp. 10-15). Infine, quanto alla sua giurisprudenza, il Giudice delle leggi richiama, fra le altre, la sentenza n. 163 del 17 ottobre 2024, ove – nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità in materia di revoca della sanzione sostituiva dell’espulsione dello straniero nel caso di suo rientro illegale nel territorio della Stato – ha comunque precisato che al giudice dell’esecuzione è precluso «procedere ad un accertamento incidentale dell’illecito penale sulla base della sola notizia di reato conseguente al riscontro della presenza dello straniero sul territorio nazionale da parte delle forze di polizia». Un simile accertamento, difatti, comporterebbe un vulnus alla presunzione di non colpevolezza, che per essere superata «esige» non una sommaria ricognizione, quanto piuttosto «lo svolgimento di un giudizio in cui l’imputato sia posto in condizione di difendersi adeguatamente» (cfr. pt. 3.2). Insomma, tale garanzia, «lungi dal limitare i propri effetti all’interno del singolo procedimento o processo penale avente ad oggetto la possibile responsabilità penale dell’individuo», comporta un più «generale divieto di considerare quello stesso individuo colpevole del reato a lui ascritto dal pubblico ministero»; un divieto, questo, che dilata i suoi effetti «nell’ambito di qualsiasi procedimento giudiziario parallelo allo stesso procedimento o processo penale, sino a che la colpevolezza sia stata giudizialmente accertata, in via definitiva, nella sede sua propria» (cfr. pt. 4.4 della sentenza. In proposito tornano alla mente le riflessioni di P. Ferrua, Regole di giudizio (diritto processuale penale), in Enc. dir., X, Giuffrè, Milano, 2017, pp. 736-737, sulla distinzione fra formule di negazione passiva, come “l’imputato non è considerato colpevole”, e quelle di negazione attiva, quale “l’imputato è considerato non colpevole”). Si fa allora evidente la «frizione con il principio in parola di una disposizione che, come quella […] censurata, obbliga un giudice (qui, il magistrato di sorveglianza) all’adozione di un provvedimento negativo a carico dell’interessato, per il solo fatto che questi sia stato imputato»; da qui, la dichiarazione di incostituzionalità dell’30-ter, co. 5, OP (cfr. pt. 4.4).

Il divieto di automatismi nell’ottica della finalità rieducativa della pena

Accanto al filone argomentativo che discende della presunzione di non colpevolezza, nei termini di cui si è detto, la Corte costituzionale evidenzia un secondo aspetto, perimenti rilevante, che attiene al principio della finalità rieducativa della pena e alla conseguente censura degli automatismi che hanno luogo nella fase dell’esecuzione penale. Come noto, l’art. 27, co. 3, Cost. detta lo statuto minimo della pena, imponendo due limiti che ben possono – o meglio, devono – essere letti come un’endiadi: in negativo, il divieto di trattamenti disumani e degradanti; e, in positivo, la tensione verso la rieducazione del condannato (in proposito, tra tutti, si rimanda a F. Siracusano, Punire e rieducare tra individualizzazione e differenziazione trattamentale: un difficile equilibrio da ricondurre entro i binari della legalità costituzionale, in Arch. pen. (web), 2021, n. 3). Proprio quest’ultimo profilo, invero, ha rivoluzionato il risalente dibattito sulla funzione della pena e, al contempo, ha acquisito un ruolo centrale, espandendo peraltro il suo spettro di azione a tutta la fenomenologia punitiva e alle diverse fasi in cui essa si esplica (sulla funzione rieducativa della pena, v., ex multis, G. Fiandaca, G. Di Chiara, Una introduzione al sistema penale. Per una lettura costituzionalmente orientata, Jovene, Napoli, 2003, p. 15 ss.; S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992, p. 21 ss.; T. Padovani, Diritto Penale, Giuffrè, Milano, 2017, p. 360 ss.; M. Ruotolo, Dignità e carcere, Editoriale Scientifica, Napoli, 2011, p. 35 ss.). Con più specifico riferimento al momento esecutivo-penitenziario, tali concetti ben trovano espressione nella previsione di un trattamento “individualizzato”, vale a dire di un percorso rieducativo che, ispirato alla progressività, sia idoneo ad approntare risposte punitive adeguate al caso concreto, nell’ottica di favorire la risocializzazione del condannato e di valorizzare i progressi da egli compiuti in tal senso (sul tema, più diffusamente, si rimanda ex multis a F. Fiorentin, L’osservazione e il trattamento, in F. Della Casa, G. Giostra (a cura di), Manuale di diritto penitenziario, Torino, 2023, p. 19 ss.). Tanto premesso, nel caso in esame, il Giudice delle leggi rievoca, ancora una volta, la già citata sentenza n. 296 del 1997, che, come anticipato, aveva fatto salvo lo sbarramento previsto dall’art. 30-ter, co. 5, OP. In quell’occasione, i giudici di Palazzo della Consulta non avevano rinvenuto profili di contrasto con l’art. 27, co. 3, Cost., evidenziando, da un lato, come il permesso premio fosse «parte integrante del trattamento e ancorato alla regolarità della condotta quale delineata dall’art. 30-ter, ottavo comma»; e, dall’altro, il carattere né assoluto né definitivo dell’esclusione dal beneficio. Sicché, si concludeva, «l’incentivazione alla “regolare condotta carceraria attraverso la promessa del permesso premio”» poteva ragionevolmente giustificare, in presenza di delitti di natura dolosa, la temporanea preclusione a una nuova concessione (cfr. pt. 7 della sentenza de qua). A chiosa della sentenza, però, i giudici costituzionali invitavano il legislatore a ripensare alla netta chiusura dettata dall’art. 30-ter, co. 5, OP, «in relazione alle tipologie di delitti dolosi la cui commissione effettivamente compromett[esse] il giudizio sulla regolarità della condotta e, conseguentemente, [facesse] presumere la pericolosità del condannato, nonché in relazione alla indifferenziata durata del periodo di esclusione dal beneficio» (cfr. pt. 7). Un monito, questo, che tuttavia non è stato affatto recepito. Ebbene, nonostante avesse superato il vaglio di legittimità, la disposizione in parola appariva già al tempo anacronistica rispetto al panorama giurisprudenziale. Invero, nel sistema di esecuzione minorile, il medesimo meccanismo ostativo in materia di permessi premio era stato dichiarato illegittimo con sentenza n. 403 del 17 dicembre 1997. Più in generale, poi, numerose previsioni operanti ex lege nell’ambito dell’esecuzione penale, atte a compromettere l’accesso a determinati benefici o misure alternative, erano state parimenti oggetto di scrutinio da parte della Corte costituzionale, producendo, però, un esito negativo. Tra queste, i giudici di Palazzo della Consulta rammentano le vicende riguardanti l’art. 54, co. 3, OP, relativamente alla revoca della liberazione anticipata in caso di condanna per delitto non colposo commesso nel corso dell’esecuzione successivamente alla concessione del beneficio (sentenza n. 186 del 23 maggio 1995), e l’art. 47-ter, co. 9, OP, «nella parte in cui faceva derivare automaticamente la sospensione della detenzione domiciliare dalla presentazione di una denuncia per il reato, previsto dal comma 8 dello stesso articolo, di ingiustificato allontanamento dall’abitazione» (sentenza n. 173 del 13 giugno 1997). In entrambi i casi, ci si trovava al cospetto di automatismi sanzionatori che relegavano nell’ombra ogni possibile valutazione sull’opportunità di proseguire il percorso risocializzativo e riabilitativo avviato dal condannato, a scapito sia dell’individualizzazione del trattamento che, a fortiori, del finalismo rieducativo della pena. La scelta di escludere siffatti automatismi nell’ambito dell’esecuzione penale, dunque, non costituisce un caso isolato, ma si impone da una lettura costituzionalmente orientata che trova fondamento proprio nell’art. 27, co. 3, Cost. Alla luce di quanto detto, ben si comprende la soluzione alla quale pervengono i giudici di Palazzo della Consulta nel caso qui in commento. Il meccanismo previsto dall’art. 30-ter, co. 5, OP, invero, non lascia alcun «margine valutativo in capo al magistrato di sorveglianza sul percorso trattamentale intrapreso dal detenuto e sulla sua residua pericolosità sociale». Così, la condanna o anche solo l’imputazione per un qualsiasi delitto doloso commesso durante l’esecuzione della pena o di una misura comunque restrittiva della libertà personale determinerebbe un automatico pregiudizio per il soggetto interessato per un arco temporale di ben due anni. Non solo, dunque, resterebbero escluse le opportune verifiche dell’autorità giurisdizionale circa la conciliabilità di tale preclusione con la prosecuzione del trattamento rieducativo in itinere, ma ciò si riverbererebbe significativamente nel tempo. Di qui, dunque, la censura di illegittimità alla quale la Corte costituzionale perviene. La finalità rieducativa della pena, come sancita dall’art. 27, co. 3, Cost., invero, mal si concilia con “rigidi automatismi” nella materia dei benefici penitenziari. Per contro, essa impone la “valutazione individualizzata e caso per caso” quale «criterio “costituzionalmente vincolante”» (sentenze n. 257 del 4 luglio 2006, n. 149 dell’11 luglio 2018, n. 56 del 31 marzo 2021 e n. 253 del 4 dicembre 2019). Venuta meno la presunzione ex lege di cui all’art. 30-ter, co. 5, OP, si riespande allora il potere discrezionale del giudice, chiamato a svolgere una valutazione “individualizzata”, che tenga conto del percorso trattamentale complessivo della persona interessata e che, ancora una volta, abbia come prospettiva di riferimento quella della rieducazione. Nel caso di specie, tenuto conto dei presupposti che informano l’istituto dei permessi premio, indicati dall’art. 30-ter, co. 1, OP, ad essere oggetto dell’accertamento del magistrato di sorveglianza saranno la «regolare condotta» del condannato, desumibile, sulla base del co. 8, dal «costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali», nonché l’assenza di pericolosità sociale del medesimo.

Un finale deludente

Giunti a questo punto, si potrebbe essere indotti a concordare con i toni entusiastici con cui la sentenza è stata accolta da una parte della dottrina (in proposito, si veda V. Manes, Qualifica di indagato (o imputato) senza effetti pregiudizievoli, in Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2025, p. 40, secondo il quale «la Consulta [avrebbe] rimarcato con nettezza il valore della presunzione di innocenza e il [suo] vasto “raggio di azione”»). Sennonché, nei passaggi conclusivi della motivazione, il Giudice delle leggi si spinge a considerazioni che si pongono in netta contraddizione con quanto statuito in precedenza e tradiscono una certa sofferenza (se non una vera e propria avversione) nei confronti di quella che altra parte della dottrina ha definito come «il postulato fondamentale della scienza processuale e il presupposto di tutte le altre garanzie» (così, O. Mazza, La presunzione d’innocenza messa alla prova, in archiviodpc.dirittopenaleuomo.org, 2019, p. 1). Invero, nel precisare le coordinate della delibazione a cui è chiamato il magistrato di sorveglianza, la Corte chiarisce che questi dovrà «necessariamente tener conto anche di eventuali notitiae criminis relative a condotte addebitate a chi richieda il permesso premio»; e, ciò, «indipendentemente dalla circostanza se tali condotte integrino in concreto tutti gli elementi oggettivi e soggettivi di un reato, e siano in effetti suscettibili di dar luogo a una responsabilità penale del richiedente» (cfr. pt. 7). Nei fatti, si legittima il magistrato di sorveglianza a ritenere un soggetto “colpevole”, non accordandogli il permesso premio, in presenza di una mera notizia di reato. Nel decidere, il giudice potrà anche «ascoltare l’imputato e il suo difensore», nonché valutare le «loro deduzioni circa l’effettiva commissione del fatto» (cfr. pt. 4.4). Insomma, è l’indagato a dover dimostrare di essere innocente (come evidenzia O. Mazza in un post su LinkedIn dal titolo Presunzione apparente d’innocenza): così, la presunzione di non colpevolezza viene a essere compromessa non solo nella sua veste di regola di trattamento, ma anche nell’accezione di regola di giudizio. Vi è dell’altro (o forse, di peggio). I giudici di Palazzo della Consulta puntualizzano che il magistrato di sorveglianza, se «non può né deve esprimersi» sulla responsabilità penale dell’istante, può tuttavia «fondare il diniego di un beneficio anche su fatti rispetto ai quali il parallelo giudizio penale di cognizione si sia concluso con una pronuncia di proscioglimento per assenza di querela» o, addirittura, «di assoluzione perché i fatti – pur ritenuti sussistenti nella loro materialità – non integravano una fattispecie di reato» (cfr. pt. 7). In altre parole, quand’anche (non presunto ma) dichiarato innocente, colui che richiede un permesso premio potrebbe vedersi rigettata la domanda sulla base di un’autonoma valutazione del magistrato di sorveglianza in merito alla condotta per cui è stata emessa una sentenza di proscioglimento. Si stravolge il significato della presunzione di non colpevolezza: se in dottrina si è affermato che questa ha come «principale valore proprio quello di garantire l’esigenza cognitiva», di talché «prima di punire bisogna condannare, prima di condannare bisogna conoscere e per conoscere bisogna processare» (O. Mazza, La presunzione d’innocenza messa alla prova, cit., p. 4), la Corte costituzionale sembra concludere nel senso che, quantunque si processi, si conosca e non si condanni, si possa comunque “punire”. Senza considerare che la pronuncia entra in conflitto con quanto disposto dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Allen c. Regno unito (pur richiamata dai giudici di Palazzo della Consulta), ove, come ricordato, si afferma che scopo della presunzione di innocenza è anche quello di evitare che persone assolte da un’imputazione penale – o il cui procedimento penale si è interrotto – siano trattate alla stregua di colpevoli dalle autorità pubbliche. A ben vedere, la sentenza mostra profili di dissonanza pure con il principio fissato dal terzo comma dell’art. 27 Cost. Come si assicura il recupero del detenuto a una vita nella società se non gli si consente di «coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro» (cfr. art. 30-ter, co. 1, OP) per un’accusa rispetto alla quale la sua penale responsabilità non è stata accertata o è stata perfino esclusa? In proposito, non va nemmeno dimenticato come la stessa Corte, in una sentenza oramai risalente, abbia avuto modo di precisare che il principio di colpevolezza svolge un ruolo “fondante” anche rispetto alla funzione rieducativa della pena: non avrebbe senso, infatti, “rieducare” chi non ha bisogno di essere “rieducato”, non versando neanche in colpa rispetto al fatto commesso (il richiamo è alla sentenza n. 322 del 24 luglio 2007). Ma il cortocircuito è logico, oltreché giuridico. Si pensi a due soggetti detenuti: uno viene condannato per un differente reato nelle more dell’espiazione della pena; l’altro, invece, è “semplicemente” indagato per un delitto o, addirittura, è stato assolto. Ebbene, sulla scorta della pronuncia in commento, il magistrato di sorveglianza potrebbe accordare il permesso premio al primo e negarlo al secondo, ritenendo, per un verso, che la condotta per cui è intercorsa condanna non sia di tale peso da giustificare il diniego e, per l’altro, che i fatti riportati nella notizia di reato o richiamati nella decisione di proscioglimento siano, al contrario, da giudicarsi sfavorevolmente. Sia chiaro: non si intende sostenere che il magistrato di sorveglianza sia obbligato ad accogliere la richiesta dell’“indagato/prosciolto”. Se ritiene che questi non abbia «manifestato costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle eventuali attività lavorative o culturali», deve essere libero di rigettarne l’istanza. Tuttavia, nello svolgere un siffatto apprezzamento, non può trarre conclusioni pregiudizievoli da semplici notitiae criminis o, ancor peggio, giungere a ritenere il detenuto “colpevole” di un reato per il quale, invece, è stato dichiarato innocente. In altri termini, se la discrezionalità del magistrato di sorveglianza può spingersi ad attribuire un minore peso alle condotte del condannato, nell’ottica di predisporre un trattamento individualizzato consono al suo reinserimento in società, non può, per converso, far discendere effetti negativi dalla mera iscrizione di una notizia di reato, né tantomeno sconfessare un accertamento giudiziale di innocenza. Per non dire, infine, che la sentenza in commento finisce per anticipare l’operatività della preclusione: mentre in costanza della disposizione censurata lo sbarramento scaturiva dalla condanna o dall’imputazione per un altro reato, ad oggi il permesso premio può essere negato già in fase di indagini preliminari e prima che il pubblico si determini nel senso dell’esercizio dell’azione penale. In definitiva e concludendo, la pronuncia de qua pare inscriversi fra quelle «sentenze retrive» che la Corte ha emesso – affianco alle «sentenze illuminanti» – negli anni, ovverosia quelle decisioni in cui il Giudice delle leggi, pur non mancando «di celebrare i principi fondamentali nel modo più magniloquente», va inserendo frasi o notazioni che «nella sostanza capovolg[ono] il discorso […] svolto» (così, A. Pasta, Lo scopo del processo e la tutela dell’innocente: la presunzione di non colpevolezza, in Arch. pen.(web), 2018, n. 1, p. 13). 

Nicolò Di Paco (assegnista di ricerca in Diritto processuale penale presso l’Università di Torino) e Mariagisa Landolfi (assegnista di ricerca in Diritto processuale penale presso l’Università di Bologna)

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