La condotta collaborativa e il sicuro ravvedimento ai fini della liberazione condizionale: i giudici di legittimità ne escludono (nuovamente) l’equivalenza (Cass., Sez. I, n. 24996/2022). Un’occasione (anche) per brevi riflessioni attorno alle prospettive di riforma.

Tale pronuncia interviene all’indomani dell’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma, con cui si è respinta l’istanza di concessione della suddetta misura presentata da G. M. D. G. – condannato all’ergastolo con isolamento diurno di anni 3, collaboratore di giustizia e già sottoposto alla misura della detenzione domiciliare ex art. 16-nonies, introdotto dalla l. 45/2001 nel tessuto normativo di cui al d.l. 8/1991 conv. l. 82/1991 – e avverso cui, il difensore di quest’ultimo ha provveduto a presentare ricorso.

Il punto focale della controversa questione è individuato dai giudici di legittimità nella prospettazione di una nozione differente di “ravvedimento” indicata nel ricorso, rispetto a quella adottata dal Tribunale di sorveglianza, venendosi, così, a porre il problema di tratteggiare un preciso “perimetro” del presupposto soggettivo de quo. Il tema risulta essere ancora più complesso, considerando l’utilizzo dello stesso “sfuggente” termine da parte di due diverse previsioni.

Infatti, da un lato, l’art. 176 c.p. prevede la concessione della liberazione condizionale qualora il detenuto abbia manifestato un<<comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento>>, dovendosi intendere – come sottolineato in precedenti pronunce degli stessi Ermellini (v., fra le altre, la sentenza n. 19818/2021) – tale locuzione nel senso che l’accesso allo “status libertatis” sia subordinato ad un esame particolarmente attento e approfondito volto ad accertare l’esistenza di un effettivo e irreversibile cambiamento, e ad un serio, affidabile e ragionevole giudizio prognostico, che, sulla base della condanna totale del proprio passato criminoso, e del complessivo atteggiamento esteriorizzato dal soggetto – durante l’esecuzione della pena – permetta, obiettivamente e in termini di certezza, ovvero di elevata probabilità, confinante con la certezza, di ritenere un’avvenuta rieducazione dell’individuo e la futura conformazione della sua condotta all’osservanza delle regole del consorzio civile, in precedenza violate. Dall’altro lato, invece, l’art. 16 nonies cit., delineando il regime applicabile ai collaboratori di giustizia – e, dunque, anche al reo a cui la vicenda in esame si riferisce, permette la liberazione condizionale, anche in deroga alle relative disposizioni “sempre che sussista il ravvedimento e non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva”.

Alla luce di ciò, pare inevitabile chiedersi se il “ravvedimento” e il modo di accertamento della sua sussistenza siano i medesimi in entrambe le disposizioni, o meno.

In modo particolare, l’ordinanza di rigetto dell’istanza, facendo riferimento alla troppo recente ammissione alla detenzione domiciliare, al risibile saltuario svolgimento di attività di volontariato e alla necessità di un ulteriore periodo di osservazione, pare collocarsi sulla scia di quella che Pugiotto (in Leggere altrimenti l’ord. n. 97 del 2021 in tema di ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, in Giurisprudenza costituzionale, 2021, pag. 1213 ss.) ha definito una “rocciosa giurisprudenza di legittimità”, la quale – nonostante non esista in tal senso alcuna espressa disposizione legislativa – ritiene fondamentale un percorso trattamentale graduale, che veda il reo, specie se ergastolano, usufruire degli altri benefici penitenziari prima di accedere alla liberazione condizionale, dal momento che questa costituirebbe il beneficio di chiusura, il traguardo e il positivo risultato di un percorso rieducativo svoltosi, e anche esauritosi, che termina con la reintegrazione del soggetto in società, seppur sub condicione.

A contrario, nel ricorso, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, si sostiene, innanzitutto, che il Tribunale di Sorveglianza abbia errato nel non tener conto del fatto che D. G., detenuto dal 1993, sia collaboratore di giustizia sin dal 2009 e che, come sottolineato dall’equipe trattamentale, abbia abiurato alle sue precedenti scelte di vita, ma soprattutto che, ai fini dell’accesso alla liberazione condizionale, non sia richiesto che il soggetto abbia completato la revisione critica del passato, ovvero che sia del tutto ravveduto, essendo sufficiente l’inizio di un percorso di ravvedimento, e, dunque, il raggiungimento di una soglia anche minima risocializzazione, come sostenuto da una parte (minoritaria) della dottrina.

La Corte di Cassazione fa luce sull’intricato tema, ritenendo di dover risolvere la questione chiarendo, in primis, come indubbiamente la nozione di “ravvedimento” assuma il medesimo significato in entrambe le disposizioni in esame, e, in secundis, come piuttosto il problema si concentri sul profilo del grado di certezza dell’intervenuto ravvedimento del detenuto.

Va, infatti, osservato che, se è vero che l’art. 16 nonies cit. riferisce il requisito soggettivo a tutti e tre gli istituti dalla norma richiamati, quali, permessi premio, detenzione domiciliare e liberazione condizionale, e non soltanto a quest’ultima, tuttavia, la differenza tra quello di cui all’art. 176 e gli altri benefici penitenziari, come più volte ribadito dalla stessa giurisprudenza di legittimità, è evidente: i secondi, collocandosi sui “gradini” più bassi della “scala trattamentale”, sono accordati in forza di una positiva valutazione del contegno carcerario, di una partecipazione still in progress al percorso di risocializzazione, che faccia presupporre in termini di mera ragionevole probabilità l’effettiva “emenda” del soggetto ; la liberazione condizionale – come osservato da autorevole dottrina (G. VASSALLI, Funzione rieducativa della pena e liberazione condizionale, in La Scuola Positiva, 1964, pag. 406-407 ) – può essere concessa, invece, solamente alla luce di un giudizio prognostico, formulato in termini di certezza e sulla base dell’attenta osservazione della globale condotta tenuta dal reo, quale affidabile indice di conclusione del percorso trattamentale, che abbia prodotto come risultato il completo ravvedimento del reo, in virtù del quale sia del tutto ragionevole escludere il rischio di un nuovo contrasto rispetto ai valori ordinamentali. Di conseguenza, nonostante il presupposto del “ravvedimento” sia richiamato genericamente e con riferimento a tutte le misure contemplate dall’art. 16 nonies cit., si deve ritenere (come puntualizzato in più occasioni dalla Cassazione (v., per tutte, la sentenza 3312/2020)) che rispetto alla liberazione condizionale sia necessario un quid pluris, e cioè un pieno ravvedimento, per la cui individuazione non è sufficiente fare riferimento né alla mera regolare condotta e all’assenza di elementi in negativo, né al contegno collaborativo (pur fondamentale indice di dissociazione dall’ambiente criminale e di avvenuto cambiamento), dovendo, invece, valere tutto ciò che ciò che si richiede ai sensi dell’accertamento ex art. 176 c.p., come interpretato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, poiché la “deroga”, prevista dalla disciplina prevista per i c.d. pentiti, deve intendersi riguardante non anche il requisito soggettivo, bensì le sole condizioni di ammissibilità (qualora si tratti di applicare la misura ai collaboratori di giustizia, non osta di per sé il mancato adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, e i limiti di pena da espiare per accedere all’istituto risultano ridotti a 1\4 di pena inflitta e 10 anni in caso di condanna all’ergastolo).

Se quanto detto rappresenta il nucleo centrale della sentenza de qua, per completezza va anche rilevato che, sullo sfondo, non per mancanza di importanza, ma per non decisività ai fini della pronuncia de qua, vi è il tema dell’interessamento nei confronti della vittima. La Suprema Corte, infatti, sottolinea come il Tribunale di Sorveglianza – pur avendo fatto cenno alla particolare gravità dei reati commessi, all’assenza di un reale interessamento e di una condotta riparatoria da parte del reo verso le vittimenon abbia affatto individuato in tali mancanze (contrariamente a quanto rilevato dal ricorrente) le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza. Di fatti, nonostante sempre più, oggi, dottrina e giurisprudenza, tendano a dare particolare importanza alla richiesta di perdono ed a gesti solidaristici e altruistici, quali tipica espressione della “giustizia riparativa” e segni di un’avvenuta responsabilizzazione del soggetto, oltre che di totale revisione critica e ripudio della condotta criminale assunta in passato, tali elementi rimangono estranei alla fattispecie come delineata dal legislatore, dovendosi intendere sì rilevanti unitamente agli altri indici di valutazione, ma non determinanti in via esclusiva e assoluta. Non ponendosi, allora, particolari problemi né con riferimento a tali ultimi profili né con riferimento al requisito dell’adempimento delle obbligazioni civili (come più sopra detto, oggetto di deroga ai sensi del regime applicabile ai collaboratori di giustizia, e la cui conformazione è pacifica grazie a una ormai risalente presa di posizione della Corte Costituzionale (v. sent. 138/2001)), gli Ermellini, pur condividendo la lettura del “sicuro ravvedimento” fornita dal Tribunale di Sorveglianza, evidenziano come, piuttosto, l’ordinanza di rigetto vada censurata per quanto attiene il profilo della motivazione, che, oltre a “creare” in via giurisprudenziale un ulteriore limite per l’accesso allo status libertatis sotto condizione, rappresentato dalla pendenza di altri procedimenti penali, risulta poco approfondita e convincente, mancante cioè di una – necessaria – valutazione concreta ed effettiva degli indici sintomatici del “sicuro ravvedimento”, oltre che canzonatoria nell’affermare che sia necessario osservare il detenuto nel lungo periodo, perché non si può totalmente ignorare e non valutare la relazione dall’equipe trattamentale, né tanto meno non ritenere rispettato il principio di gradualità nell’ammissione ai benefici penitenziari, in quanto, D. G. , detenuto ormai da 35 anni, ha già usufruito ampiamente dei permessi premio, della misura della liberazione anticipata, accedendo, infine, nel 2019 alla detenzione domiciliare.

Pare opportuno, a questo punto, svolgere alcune riflessioni attorno a quelli che potrebbero essere gli scenari futuri (anche) in questa materia. Lo scorso quattro agosto è stato approvato, infatti, dal Consiglio dei Ministri – su proposta della Ministra della Giustizia Marta Cartabia – lo schema di decreto legislativo con il quale si intende dare attuazione alla legge-delega n. 134/2021 (e già è stato inviato alle commissioni parlamentari per i pareri di competenza, obbligatori ma non vincolanti, che dovranno essere resi entro sessanta giorni). La portata particolarmente ampia dell’intervento riformatore non consente, invero, un compiuto esame dei profili di novità che coinvolgono la disciplina dell’esecuzione penale. In questa sede ci limitiamo, perciò, a evidenziare quegli aspetti che paiono direttamente riconducibili alle tematiche affrontate nella sentenza in oggetto. Da questo punto vista, assume un particolare rilievo la volontà del nuovo legislatore di introdurre nel nostro ordinamento – in ottemperanza al criterio di delega di cui all’art. 1 co. 18 lett. a) l. 134 cit. – un’organica disciplina della giustizia riparativa, così da predisporre una cornice entro la quale collocare in modo ordinato, coerente e compiuto tutti quegli gli istituti che siano funzionali alle esigenze che sono proprie della restorative justice. Del resto, a fronte dell’attuale panorama, dove gli istituti dal sapore riparativo sono numerosi, ma puntiformi e collocati nel sistema in modo inidoneo a formare un disegno coerente, la dottrina aveva da tempo evidenziato come non fosse più rinviabile un intervento del legislatore capace di dar vita a una cornice giuridica di riferimento, che indichi nozione, principi generali, soggetti, procedimenti, obiettivi e, in particolare, quella presa in carico della conflittualità inter pares che è tipica della giustizia riparativa (v., per tutti, V. Bonini, Le linee programmatiche di giustizia riparativa: il quadro e la cornice). In questo contesto, lo schema di decreto legislativo contiene specifiche previsioni che disciplinano la condizione dei soggetti che partecipino ai programmi di giustizia riparativa post rem iudicatam e, prendendo le mosse dai criteri di delega contenuti nell’art. 1 co. 18 lett. c)prevedere la possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena su iniziativa dell’autorità giudiziaria competente, senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità [……]) e lett. e)prevedere che l’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa possa essere valutato nel procedimento penale e in fase di esecuzione della pena; prevedere che l’impossibilità di attuare un programma di giustizia riparativa o il suo fallimento non producano effetti negativi a carico della vittima del reato o dell’autore del reato nel procedimento penale o in sede esecutiva»), introduce nuove disposizioni all’interno della l. 354/1975.

In particolare, l’art. 78 dello schema di decreto legislativo dispone l’inserzione dopo il 3° co. dell’art. 13 l. 354 cit. di una previsione a mente della quale «Nei confronti dei condannati e degli internati è favorito il ricorso a programmi di giustizia riparativa». Nelle intenzioni del legislatore delegato la nuova previsione deve essere intesa come il <<logico corollario>> della disposizione contenuta nell’attuale 3° co. Dell’art. 13 o.p., che, a seguito della riformulazione operata dal d.lgs. 2.10.18 n. 123, contiene già un riferimento esplicito alla “riflessione sul fatto criminoso commesso, sulle motivazioni e sulle conseguenze prodotte, in particolare per la vittima, nonché sulle possibili azioni di riparazione”. Si è voluto, in sostanza, imporre così <<un obbligo per l’amministrazione penitenziaria, per gli operatori che “hanno in carico” la persona condannata, nonché per la magistratura di sorveglianza, di favorire, attraverso le opportune azioni, il ricorso alla giustizia riparativa, offrendo agli interessati l’insostituibile opportunità di accedere ai programmi anche durante l’esecuzione della pena>> (v. la Relazione illustrativa, 442).

Viene altresì introdotta una norma speciale (art. 15-bis), rubricata, per l’appunto, come “Giustizia riparativa”, del seguente tenore:

1. In qualsiasi fase dell’esecuzione, i condannati e gli internati possono accedere, previa adeguata informazione e su base volontaria, anche su iniziativa dell’autorità giudiziaria, ai programmi di giustizia riparativa.
2. La partecipazione al programma di giustizia riparativa e l’esito riparativo sono valutati ai fini dell’assegnazione al lavoro all’esterno, della concessione dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, nonché della liberazione condizionale. Non si tiene conto in ogni caso della mancata effettuazione del programma, dell’interruzione dello stesso o del mancato raggiungimento di un esito riparativo

Il legislatore delegato ha inteso rinunciare, infatti, a inserire un semplice richiamo alla disciplina generale, da ritenersi applicabile anche nella fase dell’esecuzione della pena, avendo, piuttosto, voluto attribuire – come si legge nella Relazione illustrativa, 443) – <<una propria autonoma valenza ai percorsi riparativi pur complementari al percorso penitenziario volto primariamente alla risocializzazione del condannato>> e <<la scelta si giustifica altresì per il fatto che i programmi di giustizia riparativa debbono essere condotti anche nell’interesse delle vittime>>.

Infine, è prevista un’integrazione della disciplina contenuta nell’art. 47 o.p. (contenente le disposizioni che regolano la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale) attraverso un duplice intervento. Anzitutto, è inserito un co. 3-ter, in forza del quale: L’affidamento in prova può altresì essere concesso al condannato alle pene sostitutive della semilibertà sostitutiva o della detenzione domiciliare sostitutiva previste dalla l. 689/1981 quando, dopo l’espiazione di almeno metà della pena, abbia serbato un comportamento tale per cui l’affidamento in prova appaia più idoneo alla rieducazione del condannato e assicuri comunque la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati [……]. In proposito, basti qui rilevare come si tratti, all’evidenza, di una previsione che si ricollega direttamente alla riforma organica della disciplina delle “sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi”, che costituisce, a sua volta, uno dei profili di maggior impatto della riforma che ha preso l’avvio con la l. 134/2021. Viene poi interpolato il co. 12 con l’aggiunta, in particolare, del seguente periodo: A tali fini è valutato anche lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa e l’esito riparativo. La previsione deve essere letta in diretta correlazione con quanto previsto dal nuovo art. 15-bis: posto, invero, che si è scelto di <<[non] introdurre alcun automatismo e tenendo piuttosto conto delle specificità valutative della magistratura di sorveglianza che, come è noto, nella concessione o rigetto dei benefici deve prendere in considerazione molti altri profili (pericolosità residua, collegamenti esterni, percorsi intramurari, proiezioni esterne, revisione critica, adesione al trattamento, etc.)>>, nella visione del legislatore delegato <<la partecipazione al programma di giustizia riparativa e il suo esito favorevole rimane uno degli elementi di valutazione che, se esistente, deve poter essere preso in considerazione, ferma restando la sua assoluta irrilevanza nel caso di fallimento, interruzione o impossibilità di effettuazione>> (così la Relazione illustrativa, 444). Si comprende, dunque, come nella disposizione in discorso vi sia un espresso richiamo <<soltanto al momento concessivo delle misure trattamentali, premiali o alternative alla detenzione, sia dalla libertà che in corso di detenzione>>, considerato che <<la valutazione del percorso riparativo durante l’esecuzione di una misura può avere effetti solo all’atto della valutazione degli esiti della misura stessa>> e questa è <<facoltà concessa al giudice esclusivamente all’esito dell’affidamento in prova al servizio sociale ex art. 47 comma 12 o.p., di talché si è preferito a tale scopo operare direttamente sulla norma specifica riguardante l’affidamento medesimo>> (Relazione illustrativa, ivi). I compilatori dello schema di d.lgsl. ricordano, infatti, come, ai fini della <<verifica dell’esito positivo della prova non [sia] sufficiente il mero decorso del tempo senza che sia intervenuta la revoca della misura, ma è necessario un accertamento del giudice di sorveglianza sull’avvenuta inequivocabile rieducazione del condannato>>. La dichiarazione di estinzione della pena e di ogni altro effetto penale dipende, insomma, da <<una valutazione discrezionale, in cui ben può rientrare, in un apprezzamento ‘globale’ del percorso di probation, l’eventuale partecipazione ad un programma di giustizia riparativa>>. Per questa stessa ragione, la Commissione ministeriale non ha ritenuto opportuno intervenire in materia di liberazione condizionale: se è indubbio, infatti, che anche in questo caso sussiste l’obbligo per il tribunale di sorveglianza di dichiarare estinta la pena all’esito del periodo di libertà vigilata previsto dall’art. 177 co. 2 c.p., l’inserimento di una previsione analoga è apparsa assolutamente impedita in considerazione delle <<radicali differenze che sussistono tra quest’ultima misura, totalmente estranea alle finalità di probation (basandosi essa sul ravvedimento del condannato già avvenuto), e l’affidamento in prova, le cui finalità rieducative [……] ineriscono invece alla stessa natura dell’istituto>> (Relazione illustrativa, 446).Per concludere, non rimane che accennare a un profilo della riforma che tocca direttamente le tematiche affrontate nella sentenza in oggetto. A proposito del “nuovo” art. 15 bis o.p., i redattori dell’articolato hanno modo di precisare, invero, come la previsione <<adott(i) un approccio generalista: i programmi di giustizia riparativa devono poter essere offerti a tutti i condannati e gli internati, debitamente informati della possibilità di accedervi in ogni momento, siano essi ristretti in carcere ovvero liberi in attesa di ess
ere ammessi ad una delle misure alternative previste dall’articolo 656 comma 5 c.p.>>. Coerentemente, e anche al fine di <<evitare dubbi interpretativi>>, si è scelto di enunciare
singulatim le misure per le quali potranno essere presi in considerazione gli schemi della restorative justicemel momento in cui l’autorità giudiziaria sarà chiamata a deciderne la concessione. Fra queste viene espressamente nominata la liberazione condizionale: è l’unica misura – come è noto – a cui non è riservato un autonomo spazio all’interno della legge di ordinamento penitenziario, essendo regolata negli artt. 176 e 177 c.p., ma non per questo avrebbe potuto essere trascurata nell’operazione di riforma, proprio perché, <<nell’apprezzamento del “sicuro ravvedimento” quale requisito di accesso all’istituto, deve poter essere valutato anche l’eventuale percorso riparativo già attuato con esito favorevole in quanto indice sintomatico del ravvedimento stesso>> (Relazione illustrativa, 444).

Riferimenti bibliografici

V. Bonini, Le linee programmatiche di giustizia riparativa: il quadro e la cornice, reperibile https://www.lalegislazionepenale.eu/

A. Pugiotto, Leggere altrimenti l’ord. n. 97 del 2021 in tema di ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, in Giurisprudenza costituzionale, 2021, pag. 1213 ss.

G. VASSALLI, Funzione rieducativa della pena e liberazione condizionale, in La Scuola Positiva, 1964, pag. 406-407

a cura di Annalisa Monaco e Luca Bresciani

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