La riparazione per ingiusta detenzione e la irretroattività della disciplina penitenziaria nel contesto delle preclusioni introdotte dalla c.d. legge spazzacorrotti

Nel lontano 1996, la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 314 c.p.p. nella parte in cui non prevede il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione [Corte cost., 18 luglio 1996, n. 310 in Giur. cost., 1996, 2557]. La disposizione del codice di rito, com’è noto, si occupa testualmente soltanto di chi abbia subito una misura cautelare custodiale e sia successivamente prosciolto con sentenza irrevocabile, nonché del caso in cui si accerti successivamente che il provvedimento restrittivo sia stato emesso o mantenuto in carenza dei presupposti legittimanti la compressione della libertà, ovvero quando nei confronti del soggetto sottoposto a misura cautelare in carcere sia poi pronunciata sentenza di archiviazione o non luogo a provvedere.

Secondo la Corte, «la diversità della situazione di chi abbia subito la detenzione a causa di una misura cautelare, che in prosieguo sia risultata iniqua, rispetto a quella di chi sia rimasto vittima di un ordine di esecuzione arbitrario non è tale da giustificare un trattamento così discriminatorio, al punto che la prima situazione venga qualificata ingiusta e meritevole di equa riparazione e la seconda venga invece dal legislatore completamente ignorata.

La disparità di trattamento tra le due situazioni appare ancor più manifesta, se si considera che la detenzione conseguente ad ordine di esecuzione illegittimo offende la libertà della persona in misura non minore della detenzione cautelare ingiusta» [cfr. par. 4 della motivazione in diritto].

Cosa debba intendersi per «erroneo ordine di esecuzione» è stato chiarito da successiva giurisprudenza di legittimità [in particolare da Cass., Sez. IV, n. 57203 del 21.09.2017, in Mass. Uff., n. 271689]: la portata della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 314 c.p.p. non deve intendersi come limitata all’ipotesi di una pena definitivamente inflitta inferiore a quella espiata, perché tutte le vicende dell’esecuzione sono comprese nell’orizzonte della riparazione dell’ingiusta detenzione, sempre che ne derivi, appunto, una ingiustizia nella restrizione patita, discendente da un errore dell’autorità procedente e non dipendente da comportamento doloso o colposo del condannato [sul tema si veda, altresì, Cass., Sez. IV, n. 1718 del 14.01.2021, in Mass. Uff., n. 281151].

In questa materia si vuole oggi segnalare una recente pronuncia della Suprema Corte, resa all’esito della camera di consiglio dell’1.12.2021 [Cass., Sez. IV, n. 9721/2022], che ha affermato il seguente principio di diritto:

«Tra i casi in cui, in applicazione della sentenza n. 310 del 18-25 luglio 1996 della Corte costituzionale, si è riconosciuta la sussistenza del diritto alla equa riparazione anche nel caso di detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., e violazione dell’art. 5 della Convenzione EDU che prevede il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste senza distinzione di sorta, rientra anche, naturalmente ove ricorrano le condizioni di cui agli artt. 314-315 cod. proc. pen., l’ipotesi di mancata sospensione della esecuzione della pena detentiva, pari o superiore a tre anni di reclusione, inflitta per fatto commesso e con accertamento avvenuto prima dell’entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”), il cui art. 1, comma 6, lettera b), è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32 del 12-16 febbraio 2020 “in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale».

Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, il ricorrente era stato condannato alla pena di tre anni di reclusione per peculato con sentenza del Tribunale di Salerno del 7 luglio 2014, confermata dalla Corte d’Appello l’8 aprile 2016, divenuta irrevocabile l’11 luglio 2017.

Il Pubblico Ministero, trattandosi di pena della reclusione inferiore ad anni quattro, aveva sospeso il titolo esecutivo, onde consentire al condannato di avanzare, nel termine di trenta giorni, richiesta di misura alternativa. L’istanza del condannato era stata però respinta dal Tribunale di sorveglianza, che aveva ritenuto inammissibile la domanda sul presupposto dell’entrata in vigore, a far data dal 1° gennaio 2020, della l. 9 gennaio 2019, n. 3 (recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione dl reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”) che, modificando l’art. 4 bis OP, ha consentito la concessione di benefici penitenziari ai condannati per i reati contro la pubblica amministrazione previsti dalla nuova legge (anche detta “Spazzacorrotti”) soltanto nelle ipotesi di collaborazione ex art. 58 ter OP ovvero a norma dell’art. 323 bis c.p.

Il Collegio di sorveglianza, insomma, aveva ritenuto immediatamente applicabile la nuova disciplina penitenziaria anche a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della novella del 2019, considerata incidente soltanto sulle modalità esecutive della pena e non anche sull’essenza della pena stessa, in virtù del noto principio tempus regit actum, tradizionalmente utilizzato in ambito procedurale.

A seguito dell’ordinanza di inammissibilità della domanda di misure alternative, dunque, il competente ufficio esecuzioni della Procura aveva revocato la sospensione dell’ordine di esecuzione e il condannato aveva fatto ingresso in carcere.

Soltanto a distanza di qualche mese, avendo presentato istanza di affidamento in prova al servizio sociale, eseguito dal Tribunale di sorveglianza, così nuovamente adito, un compiuto accertamento sull’insussistenza di attuali contatti con la criminalità organizzata, sulla restituzione del maltolto e sulla inesigibilità della collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter OP, il condannato era stato ammesso alla misura alternativa.

Ritenendo ingiusta la carcerazione così eseguita per 111 giorni di detenzione – quelli intercorrenti tra l’esecuzione dell’ordinanza di inammissibilità del Tribunale di sorveglianza e l’esecuzione dell’ordinanza di ammissione alla misura ex art. 47 ter OP decisa qualche mese dopo dallo stesso organo – il soggetto ha dunque presentato domanda di ristoro ai sensi dell’art. 314 c.p.p. dinanzi alla Corte d’Appello di Salerno.

La Corte territoriale ha però rigettato la sua domanda, sulla base del duplice assunto per cui l’errata interpretazione della norma da parte dell’organo dell’esecuzione e della giurisdizione di sorveglianza aveva determinato soltanto una diversa modalità di esecuzione della pena, che rimaneva pur sempre legata ad un titolo di esecuzione valido e legittimo perché fondato sulla sentenza di condanna a tre anni di reclusione, e che in ogni caso poteva applicarsi, nel caso di specie, il meccanismo di cui all’art. 314, co.4, c.p.p., cioè lo scomputo della detenzione asseritamente ingiusta dalla durata della pena da espiarsi in affidamento in prova.

La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sul ricorso avverso il rigetto della domanda di ristoro presentata dal condannato, dopo aver passato in rassegna la trama giurisprudenziale che ha delineato i confini dell’istituto invocato, con riferimento alle vicende esecutive, ha ricordato che il problema della mancanza di una normativa transitoria posta dalla legge “Spazzacorrotti” è stato risolto dalla Corte costituzionale con la nota pronuncia n. 32 del 2020 [Corte cost., 12 febbraio 2020, n. 32, https://www.sistemapenale.it/it/notizie/corte-costituzionale-sentenza-32-2020-deposito-regime-intertemporale-spazzacorrotti ].

La Cassazione ha evidenziato che, ai fini della soluzione della questione, sarebbe stato sufficiente rifarsi anche al solo contenuto del comunicato stampa della nota decisione, in cui si legge che: « Se al momento del reato è prevista una pena che può essere scontata “fuori” dal carcere ma una legge successiva la trasforma in una pena da eseguire “dentro” il carcere, quella legge non può avere effetto retroattivo. Tra il “fuori” e il “dentro” vi è infatti una differenza radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa, perché è profondamente diversa l’incidenza della pena sulla libertà personale».

Di conseguenza, errata era stata la revoca della sospensione dell’ordine di esecuzione dovuta all’altrettanto errata declaratoria di inammissibilità pronunciata, in prima battuta, dal Tribunale di sorveglianza.

Gli atti sono stati dunque ritrasmessi alla Corte d’Appello di Salerno per una nuova valutazione sulla domanda di ristoro per ingiusta detenzione.

La decisione della Suprema Corte impone una riflessione a più ampio raggio sulla questione della retroattività delle modifiche in peius della disciplina penitenziaria. Com’è noto, nella pronuncia della Corte costituzionale del 2020 è stato chiarito che l’inapplicabilità del principio del tempus regit actum – sino a quel momento sempre ritenuto valido nella materia dell’esecuzione penitenziaria – non poteva ritenersi idoneo per i permessi premio e il lavoro all’esterno, istituti che dovevano continuare ad essere regolati dalla normativa in vigore al momento della domanda e non al momento della commissione dei fatti di reato per i quali era intervenuta la condanna.

Il tema si intreccia, inevitabilmente, con quello del superamento della presunzione assoluta ex art. 4 bis OP deciso dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 253 del 2019, che ha aperto la strada per l’accertamento in concreto dell’insussistenza dei legami con la criminalità organizzata e del pericolo di ripristino degli stessi, finalizzato alla concessione, anche per condannati per delitti c.d. assolutamente ostativi, di permessi premio.

Vacilla insomma il terreno dell’apparato legislativo concepito per l’accesso ai benefici penitenziari, il cui profilo risulta oggi disegnato da numerosi interventi correttivi del Giudice delle leggi e della Suprema Corte.

Il faro della discussione sulla tenuta delle norme – ormai inidonee a regolare compiutamente il complessivo scenario dell’esecuzione penitenziaria – è costantemente individuato dalla Consulta e dall’organo nomofilattico nella legalità della pena, “cuore” dello Stato di diritto.

Nessuno può essere punito se non in forza, e con le modalità, deve ora aggiungersi, descritte da una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.

In conclusione, è pena illegale non solo la pena originariamente conforme al dettato normativo ma divenuta contra legem per sopravvenienza di pronuncia di illegittimità costituzionale, innesto normativo di lex mitior che abbia abrogato tout court la norma incriminatrice oppure diminuito la cornice edittale; ma anche, a seguito della sentenza n. 32 del 2020 della Corte costituzionale, la pena conforme alla forbice edittale descritta nella fattispecie incriminatrice ma eseguita, in concreto, secondo modalità deteriori rispetto a quelle in vigore all’epoca della commissione del fatto.

Tra le modalità di esecuzione non può non rientrare la circostanza che la pena sia scontata dentro o fuori le mura del carcere, sicché, per le ipotesi di ingiusto diniego di accesso a misure alternative, deve riconoscersi il ristoro per ingiusta detenzione previsto dalla legge.

Di seguito il testo della sentenza:

Cass. 9721.2022

A cura della Dott.ssa Maria Merlino, Magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di l’Aquila.

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