Corte Cost., sent. n. 28/2022: dichiarata l’incostituzionalità del “canone” di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria per violazione dei principi di eguaglianza e finalità rieducativa della pena

Con la sentenza in oggetto la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 53 co.2° legge 24 novembre 1981, n. 689, nella parte in cui prevede che il tasso minimo di conversione della pena detentiva nella pena sostitutiva pecuniaria non possa essere inferiore alla somma indicata dall’art. 135 del codice penale, ossia ad euro 250 per ogni giorno di pena detentiva, anziché ad euro 75, cioè il limite minimo stabilito in materia di decreto penale di condanna dall’art. 459, co.1-bis, c.p.p.

Com’è noto, la legge n. 689 del 1981, successivamente modificata, introdusse l’istituto della sostituzione delle pene detentive brevi per esigenze di deflazione del sistema carcerario, prevedendo che le pene stabilite nel massimo, rispettivamente, di due anni, un anno e sei mesi (nell’impianto originario della legge solo queste ultime) potessero essere convertite, dallo stesso giudice della condanna, in semidetenzione, in libertà controllata o nella corrispondente pena pecuniaria.

Come ha ricordato la Corte costituzionale, le pene detentive di breve durata sono tradizionalmente guardate con sfavore dal legislatore in quanto, da un lato, troppo esigue per impostare ed attuare un programma rieducativo davvero efficace in favore del condannato, dall’altro, abbastanza lunghe per determinare gravi conseguenze a suo carico: l’ingresso in carcere provoca una brusca lacerazione dei rapporti sociali, familiari e lavorativi e il contatto con gli altri ristretti, soprattutto se condannati per reati più gravi, potrebbe essere persino nocivo per un soggetto di non consistente caratura criminale. Usando l’espressione coniata da Franz von Liszt, la restrizione inframuraria per il breve periodo rende infatti il carcere una «incubatrice di vizi», una «università del crimine» (sulla costante ricorrenza di questo problema nodale di politica criminale, si veda, per tutti, Trapani, Le sanzioni penali sostitutive, Padova, 1985, in particolare pp.1-12; ma anche Dolcini, Le sanzioni sostitutive applicate in sede di condanna. Profili interpretativi sistematici e politico-criminali del capo III, sezione I della legge 689 del 1981, in Riv.it. dir. e proc. pen., 1982, IV, 1390 ss.).

Già il codice Zanardelli prevedeva diverse sanzioni non detentive per la c.d. piccola criminalità, che vennero designate dalla dottrina del tempo come «surrogati penali» (Florian, Dei reati e delle pene in generale, in AA.VV., Trattato di diritto penale, I, parte II, Milano, 1910, pp. 57 e 81 ss.), ma la vera rivoluzione fu compiuta proprio con la legge del 1981 che, rotto il binomio pena detentiva-pena pecuniaria, introdusse anche la semidetenzione e la libertà controllata quali tipologie alternative di pena – e non, si badi bene, modalità alternative di esecuzione della pena (sul carattere di vere e proprie pene delle sanzioni sostitutive si rinvia al chiarissimo scritto di Bertoni, Appunti in materia di pene sostitutive, in Cass. pen., 1982, p. 650).

Uno spazio esiguo fu attribuito alla già conosciuta pena pecuniaria: ciò fu spiegato dalla dottrina dell’epoca quale accoglimento, da parte del legislatore, delle serrate critiche al vasto utilizzo di multe e ammende in un paese fortemente caratterizzato da situazioni di diseguaglianza sociale, non essendo sufficiente il meccanismo di temperamento previsto dall’art. 133-bis c.p., introdotto proprio dall’art. 100 L. 689/1981, a garantire alla pena pecuniaria un grado omogeneo di afflittività (Dolcini, op. ult. cit., 1397). Come auspicato da una nutrita schiera di studiosi (Bricola, Il sistema sanzionatorio penale nel codice Rocco e nel progetto di riforma, in AA.VV., Giustizia penale e riforma carceraria in Italia, Roma, 1974, p. 57; Dolcini, Pene pecuniarie e principio costituzionale di eguaglianza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1972, pp. 408 ss.; Pagliaro, Prospettive di riforma, in AA.VV., Pene e misure alternative nell’attuale momento storico, Milano, 1977 pp. 430 ss.; Turnaturi, Aspetti problematici della costituzionalità delle pene pecuniarie fisse e proporzionali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1977, p. 1415) solo l’introduzione del sistema dei c.d. tassi giornalieri avrebbe garantito la possibilità di rendere la pena pecuniaria effettivamente in linea con le condizioni economiche del reo e dunque di rispettare il principio di eguaglianza sostanziale.

La Corte costituzionale, nella pronuncia in commento, ha ricordato che l’attuale meccanismo di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria è soltanto ispirato al criterio dei c.d. tassi giornalieri, adottato anche dai sistemi francese, tedesco, austriaco, spagnolo e portoghese: esso impone, in un primo tempo, di individuare, sulla base della gravità oggettiva e soggettiva del reato, il numero delle quote giornaliere che il reo deve pagare; solo in un secondo tempo, verificate le condizioni economiche del condannato, e in particolare determinata la quota di reddito giornaliero che si presume egli possa ragionevolmente impiegare per il pagamento della pena pecuniaria, tenuto conto della sua complessiva consistenza patrimoniale, si potrà fissare il valore di ciascuna quota.

L’art. 53, co.2, L. 689/1981, ha rilevato criticamente la Corte, ha realizzato solo parzialmente il modello dei tassi giornalieri: la disposizione censurata stabilisce sì che il giudice debba individuare il valore giornaliero cui può essere assoggettato l’imputato, tenendo conto della sua situazione economica e del suo nucleo familiare, ma prevede anche che tale valore giornaliero non possa essere inferiore al limite minimo indicato dall’art. 135 c.p., da intendersi sicuramente come inderogabile, non essendo più possibile la diminuzione sino ad un terzo che in precedenza era consentita dal richiamo all’art. 133-bis c.p., ormai espunto dal testo della disposizione censurata per effetto delle modifiche introdotte dalla l. 34/2003. Accogliendo le censure evidenziate dal giudice rimettente – nel giudizio a quo, peraltro, era di tutta evidenza l’incongruità del sistema di conversione “a limite minimo fisso” rispetto all’occorso, trattandosi di una fattispecie di violenza privata, determinata dall’avere il reo lasciata parcheggiata la propria automobile in prossimità dell’ingresso dell’abitazione delle persone offese, così impedendo loro di entrare e di uscire con la propria vettura: condotta sicuramente di modesto valore, punita con la pena di tre mesi di reclusione, convertiti in ben 22.500 euro di multa, somma pari ai redditi dichiarati dall’imputato nell’anno 2020 – la Consulta ha rilevato una violazione del principio di eguaglianza sostanziale per l’impossibilità, in capo al giudice della cognizione, di vagliare la proporzione tra la pena pecuniaria da infliggere e l’effettiva gravità del reato.

Dopo aver ricordato che analoga questione era stata rigettata nel 2014 sulla base del principio per cui non era possibile richiedere alla Consulta un intervento sostitutivo comportante scelte di politica criminale riservate al legislatore (sent. 9 luglio 2014, n. 214), orientamento parzialmente superato da giurisprudenza successiva che ha ammesso gli interventi “ortopedici” del Giudice delle leggi anche in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata al vulnus denunciato, la Corte costituzionale ha individuato, quale soluzione temporanea alla lacuna altrimenti lasciata nel sistema in seguito alla declaratoria di incostituzionalità, il tasso di conversione previsto in materia di decreto penale di condanna: la soglia minima la somma di euro 75 per ogni giorno di pena detentiva sostituita, stabilita dall’art. 459, co.1-bis c.p.p., è sicuramente più ragionevole rispetto alla quota giornaliera di euro 250 che, all’evidenza, è «ben superiore a quella che la gran parte delle persona che vivono oggi nel nostro Paese sono ragionevolmente in grado di pagare, in relazione alle proprie disponibilità reddituali e patrimoniali» (punto 6.3 della motivazione in diritto).

Si tratta, chiaramente, di una soluzione temporanea, in attesa che il legislatore intervenga a razionalizzare l’intera materia delle pene pecuniarie.

La pronuncia della Corte costituzionale fornisce l’occasione per analizzare la più ampia operatività, nell’ordinamento penale, del criterio di ragguaglio, quel meccanismo che consente di convertire la pena limitativa del «bene primario posseduto da ogni essere vivente», per usare le parole della stessa Corte (sent. 16 novembre 1979, n. 131, annotata da Conso, Sintomi di crisi per la pena pecuniaria, in Giur. cost., 1979, I, 1048) in una afflizione che incide non sulla persona, ma sul patrimonio del condannato.

Punto di partenza della riflessione deve essere appunto l’art. 135 c.p. che, al comma secondo, stabilisce che «quando, per qualsiasi effetto giuridico, si deve eseguire un ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive, il computo ha luogo calcolando euro 250, o frazione di euro 250, di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva».

Alcuni interventi legislativi hanno aggiornato il criterio attualmente fissato ad euro 250 per diem, per allinearne l’importo valore della moneta.

Nel 1993, il legislatore triplicò la misura del parametro in parola, portandolo da venticinquemila a settantacinquemila lire, anche al fine di rendere meno trascurabili le pene pecuniarie, irrogate in sostituzione delle pene detentive brevi (Padovani, Commento alla l. 5.10.1993, n. 402. Modifica dell’art. 135 del codice penale: ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, in LP, 1994, 26). La legge 15 luglio 2009, n. 94 ha poi stabilito un ulteriore, energico incremento, innalzando il valore di ragguaglio agli attuali euro 250.

In origine, il principale ambito di applicazione del criterio ex art. 135 c.p. era quello individuato dal successivo art. 136 c.p. che, prevedendo la conversione automatica in pena detentiva della pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato, fino al limite di tre anni, per la reclusione, e di due, per l’arresto, esprimeva il principio dell’assoluta inderogabilità della pena.

L’art. 136 c.p. cadde sotto la scure della Corte costituzionale, che ne dichiarò l’illegittimità per contrasto con il principio di eguaglianza (Corte cost., sent. 131/1979) in quanto la conversione automatica comportava «un aggravamento della pena inflitta dal giudice», così alterando «il rapporto di proporzionalità tra la gravità del reato e la capacità a delinquere del colpevole, da un lato, e la specie e quantità della pena irrogata, dall’altro, quale determinato discrezionalmente, nei limiti e secondo i parametri di legge, dal giudice stesso. Con il risultato di far derivare, per effetto delle condizioni economiche del condannato, disuguali conseguenze sanzionatorie da responsabilità ritenute di pari intensità nella violazione della medesima norma incriminatrice, sino a far scontare al condannato insolvibile, quando i fatti di reato siano punibili con la sola pena pecuniaria, una pena di specie diversa e più grave di quella comminata nella previsione generale ed astratta del legislatore». Il vuoto normativo che derivò dall’espunzione dall’ordinamento dell’originario art. 136 c.p. fu colmato dalla l. 689/1981, che diede vita ad un articolato sottosistema di conversione, ispirato al principio della restrizione inframuraria quale extrema ratio.

Il nuovo art. 136 c.p. rinvia, dunque, al sottosistema costituito dagli artt. 102 – 108 l. 689/1981, ancora in vigore, che dettano le regole per la conversione delle pene pecuniarie rimaste inseguite per insolvibilità del condannato in libertà controllata o in lavoro sostitutivo (quest’ultima è misura concedibile solo su richiesta dell’interessato), precisando che in caso di inosservanza delle prescrizioni che accompagnano queste sanzioni “sussidiarie”, esse possono nuovamente essere convertite (c.d. conversione di secondo grado), nella parte non eseguita, in un periodo equivalente di reclusione o di arresto, a seconda della specie di pena pecuniaria originariamente inflitta (art. 108, co.1, l. 689/1981).

Il nuovo criterio di ragguaglio fu inserito all’art. 102 della legge, il cui comma terzo prevedeva, originariamente, un tasso di lire venticinquemila di pena pecuniaria per un giorno di libertà controllata. La disposizione fu dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, con sentenza del 23 dicembre 1994, n. 440: la Corte ne dichiarò l’illegittimità costituzionale nella parte in cui stabiliva che, agli effetti della conversione delle pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità del condannato, il ragguaglio avesse luogo calcolando venticinquemila lire o frazione di venticinquemila lire (euro 12), anziché settantacinquemila lire o frazione di settantacinquemila lire (euro 38) di pena pecuniaria per ogni giorno di libertà controllata (sent. n. 440 del 23 dicembre 1994). In tal modo il tasso venne allineato perfettamente a quello stabilito dall’art. 135 c.p. allora vigente.

Lo stesso avvenne nel 2012, quando un nuovo intervento della Corte condusse alla declaratoria di illegittimità costituzionale della medesima disposizione, nella parte in cui stabiliva che, agli effetti della conversione delle pene pecuniarie rimaste ineseguite per insolvibilità del condannato, il ragguaglio avesse luogo calcolando euro 38, o frazione di euro 38, anziché euro 250, o frazione di euro 250, di pena pecuniaria per un giorno di libertà controllata, così adeguando il coefficiente di conversione delle pene pecuniarie a quello stabilito all’art. 135 c.p., come novellato dalla l. 94/2009 (Corte cost., 1 gennaio 2012, n. 1, in Giur. pen. Web, 2018, 6).

Questa breve ricostruzione delle regole formali sul ragguaglio – art. 135 c.p., da un lato, art. 101, co. 3, l. 689/1981, dall’altro – induce a riflettere sulla natura del coefficiente di conversione, evidentemente unitaria ma diversamente modulata a seconda del settore di riferimento.

È stato osservato in dottrina che la caducazione del sistema di conversione automatica delle pene pecuniarie ex art. 136 c.p. avrebbe ridotto drasticamente l’ambito di applicazione dell’art. 135 c.p., destinato ad operare soltanto nei residui spazi della determinazione del massimo di pena che consente la sospensione condizionale della pena (art. 163, co.1, c.p.) ovvero del beneficio della non menzione della condanna nel casellario giudiziale (art. 174, co.2, c.p.), oltre che in materia di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria nei soli casi di cui all’art. 2, co.3, c.p. (ipotesi di successione di leggi nel tempo in cui la legge posteriore alla condanna preveda la sola pena pecuniaria).

Per il caso di conversione di pene pecuniarie per insolvibilità, invece, essendo stato creato un sistema ad hoc, il ragguaglio ex art. 135 c.p. non avrebbe più potuto essere invocato.

Ebbene, le citate sentenze della Corte costituzionale sono intervenute proprio a riallineare i due coefficienti, in quanto dalla differenza tra quello per la conversione da parte del giudice della cognizione di pene detentive brevi in pene pecuniarie e quello stabilito ai fini del mutamento della pena originariamente pecuniaria in sanzione limitativa della libertà personale da parte del magistrato di sorveglianza sorgeva una indubbia lesione del principio di eguaglianza, atteso che, di fronte all’equivalenza, fissata in via generale dall’art. 135 c.p., tra un giorno di detenzione e la somma originariamente prevista di lire settantacinquemila, il “valore” di un giorno di libertà controllata ammontava soltanto a lire venticinquemila. La Corte costituzionale, considerato che l’unico scopo del meccanismo di ragguaglio contenuto nel codice penale era quello di «ampliare la possibilità di fruire del beneficio della sospensione condizionale della pena, nei casi di condanna a pena congiunta o anche soltanto a pena pecuniaria, ma di ammontare elevato» (Corte cost., 23 dicembre 1994, n, 440), ha rilevato che lo squilibrio, introdotto dalla riforma con il valore fissato dall’art. 102, co.3, L. 689/1981 non fosse frutto di una scelta discrezionale del legislatore, ma appariva del tutto ingiustificata e contraddittoria.

Mantenere un tasso di cambio inferiore (lire ventincinquemila) si soli fini della conversione della pena pecuniaria rimasta inseguita in libertà controllata quando, per tutti gli altri effetti giuridici, il tasso era stato triplicato, comportava evidenti compromissioni del principio di eguaglianza.

Considerazioni di pari tenore vennero espresse nella successiva pronuncia del 2012, n.1.

Quali dunque le ricadute della recente declaratoria di incostituzionalità del “tasso minimo” di conversione dell’art. 53 L. 689/1981 sul coefficiente per il mutamento di multe e ammende rimaste ineseguite in libertà controllata o lavoro sostitutivo?

La Corte costituzionale non ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 135 c.p., ma del solo rinvio mobile o recettizio che l’art. 53 l. 689/1981 realizza rispetto al criterio di ragguaglio contenuto nel codice penale. Di conseguenza, non potendosi estendere il giudizio di espunzione dall’ordinamento a una disposizione non direttamente censurata dalla Consulta, dovrebbe ritenersi che l’impianto generale degli altri settori in cui quel coefficiente sia destinato ad operare rimangano inalterati.

Dovrebbe considerarsi immutato, insomma, il valore di euro 250 per ogni giorno di pena detentiva per «qualsiasi effetto giuridico» residuale, come lo stesso art. 135 c.p. dispone.

Del resto, la soluzione contraria avrebbe esiti in malam partem, in quanto la diminuzione del denominatore monetario, nell’operazione di divisione della somma totale rimasta insoluta per la determinazione dei giorni di libertà controllata o di lavoro sostitutivo, darebbe luogo ad una più lunga compressione della libertà personale rispetto a quella che si otterrebbe dividendo l’intero importo della pena pecuniaria per la più elevata cifra di euro 250. I diversi esiti cui conduce il mutamento del tasso sono stati rilevati dalla stessa Corte costituzionale: l’innalzamento del coefficiente di ragguaglio torna a vantaggio dell’imputato allorché sia la pena pecuniaria a dover essere ragguagliata alla pena detentiva (ad esempio, in sede di verifica della fruibilità dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale), mentre va a suo discapito nell’ipotesi inversa, così come tipicamente avviene quando si discuta dell’applicazione dell’istituto di cui all’art. 53 della l. 689/1981 (Corte cost., sent. 9 luglio 2014, n. 214, punto n. 4.2. della motivazione in diritto).

In attesa che il legislatore intervenga a rivedere in maniera organica tutto l’impianto delle pene pecuniarie, si dovrebbe escludere, in conclusione, una interpretazione sfavorevole per il condannato alla pena pecuniaria rimasto inadempiente.

Di seguito il testo della sentenza:

Sentenza Corte Cost n. 28 del 2022

a cura della Dott.ssa Maria Merlino, Magistrato di Sorveglianza presso l’Ufficio di Pescara

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