“Per aspera ad inferos”: osservazioni di Lina Caraceni attorno al testo-base adottato dalla Commissione giustizia della Camera

Per aspera ad inferos: la parafrasi del noto brocardo latino descrive perfettamente l’inarrestabile involuzione verso derive repressive e securitarie dell’art. 4-bis ord. penit., anche dopo Corte cost., ord. 97/2021, la quale ha concesso al legislatore un anno di tempo per “sanare”, altrimenti verrà dichiarata, l’incostituzionalità della disciplina penitenziaria che vieta l’accesso ai benefici, in assenza di utile collaborazione con la giustizia, ai condannati per reati “ostativi”, segnatamente gli ergastolani per crimini di contesto mafioso. E ancora una volta il rammendo normativo che ci si appresta a fare è peggiore del buco; il testo licenziato dalla Commissione giustizia della Camera dei deputati il 17 novembre 2021, come testo-base per la discussione, dovrebbe rappresentare, nelle parole del Presidente della Commissione, la miglior sintesi tra i valori espressi dalla Corte costituzionale e la necessità di mantenere il più assoluto rigore nei riguardi della detenzione dei boss mafiosi. In verità, la bilancia pende tutta a favore di quest’ultimo. Siamo ben lontani da quanto affermato dalla Consulta nell’ordinanza richiamata, sulla scia dei più recenti approdi della giurisprudenza convenzionale (v. Corte eur., 13 giugno 2019, Viola v. Italia): la presunzione di pericolosità del condannato “ostativo” desunta esclusivamente dall’assenza di collaborazione con la giustizia può ritenersi compatibile con gli artt. 3 e 27 comma 3 Cost. (e aggiungo art. 3 CEDU) a condizione che sia relativa e per questo “vincibile” attraverso prova contraria; e la prova contraria, dopo “l’incursione da nomoteta” di Corte cost., sent. 253/2019, deve risultare da elementi atti ad escludere sia l’attualità dei collegamenti del condannato con la criminalità organizzata, sia il pericolo di un loro ripristino e graverebbe sull’istante l’onere di «specifica allegazione» riguardante le due condizioni negative ora richiamate.

Piuttosto che ad una sintesi il testo che ci si accinge a commentare assomiglia molto ad un maldestro patchwork che assembla, secondo i rigorosi dettami del collaudato “manuale Cencelli”, i disegni di legge d’impronta giustizialista presentati da diverse forze politiche (proposte C 3106 Ferraresi; C 3184 Delmastro Delle Vedove e C 3315 Paolini) che non tengono in nessun conto i princìpi costituzionali dell’uguaglianza, della dignità del detenuto (che vieta comportamenti contrari al senso di umanità) e del finalismo rieducativo associati all’esecuzione della pena. Malgrado l’intestazione dell’articolato la richiami, non v’è traccia nel testo licenziato della proposta C 1951 Bruno Bossio, dalla quale invece poteva essere tratto qualche utile spunto nella prospettiva del recepimento delle indicazioni del Giudice delle leggi.

L’abbozzo normativo agisce a due livelli (e mi limiterò agli interventi diretti sull’art. 4-bis, tralasciando quelli sull’art. 58-quater ord. penit. e sulla disciplina della liberazione condizionale): da un lato, individua un tortuoso percorso di accesso ai benefici penitenziari per i condannati a pena perpetua per reati ostativi non collaboranti, teoricamente in grado di superare la presunzione assoluta di pericolosità; dall’altro, limitando ai soli condannati all’ergastolo l’operatività dell’alternativa alla collaborazione, assesta indirettamente il definitivo colpo al già precario equilibrio costituzionale su cui si regge il comma 1 dell’art. 4-bis ord. penit.

Partiamo dal primo: viene riscritto completamente il comma 1-bis prevedendo un pesante onus probandi per l’istante che, va detto subito, risulterà impossibile assolvere. Innanzitutto, l’ergastolano che voglia vincere la presunzione di pericolosità da cui è gravato per la mancata collaborazione dovrebbe dimostrare di aver tenuto regolare condotta e partecipato al percorso rieducativo – il compito più semplice da svolgere e pure l’unico che giuridicamente e logicamente dovrebbe essere richiesto al condannato; a questo si aggiunge dar prova di aver integralmente adempiuto alle obbligazioni civili e alle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato, salvo dimostrare l’impossibilità assoluta di provvedere in tal senso. E già qui le cose si complicano alquanto: in primis appare fuorviante il riferimento alle «riparazioni pecuniarie», un’inedita locuzione che disorienta, crea confusione nell’individuazione del comportamento dovuto, perché strizza l’occhio alle pratiche di giustizia riparativa senza nominarle (e non potrebbe farlo, poiché queste sono fondate sulla consensualità, sull’incontro autore-vittima e non possono mai essere costruite come obblighi unilaterali di fare); secondariamente esorbitante risulta la pretesa dell’«integrale adempimento» (di norma associata alla concessione della liberazione condizionale, la misura per gli ergastolani in grado di estinguere la pena), poco coerente con benefici quali il lavoro all’esterno o i permessi premio, tipici strumenti della progressività trattamentale impiegati dalla magistratura di sorveglianza nei confronti di condannati che scontano lunghi periodi di detenzione e funzionali a saggiarne l’evoluzione sulla strada del recupero e in vista dell’adozione di misure di favore più ampie.

La disposizione prosegue chiedendo sempre all’istante, a seguito di specifica allegazione (qui riecheggiano le parole di Corte cost., sent. 253/2019), di dimostrare l’esistenza di congrui e specifici elementi concreti (qualcosa di ulteriore rispetto alla dichiarazione di dissociazione dal sodalizio criminale di appartenenza) da cui poter «escludere con certezza» sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi. Con una formula di sintesi possiamo dire che l’ergastolano, con questo ulteriore adempimento probatorio, ad impossibilia tenetur, poiché non solo si pretende che dimostri l’esistenza di elementi specifici e concreti che attestino in termini di «certezza» una condizione negativa – la mancanza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata, terroristica od eversiva – ma addirittura quella certezza deve pure sorreggere la prognosi negativa in ordine al pericolo di ripristino di quei collegamenti (si badi bene: i reati di “contesto mafioso” non sono nemmeno nominati, ma aleggiano minacciosi).

Già “diabolica” si presenta la prima delle due prove richieste, come in questi anni ha dimostrato la giurisprudenza formatasi sul precedente comma 1-bis, a proposito della collaborazione irrilevante o impossibile; epistemologicamente aberrante, insensata possiamo chiamare la seconda, in quanto addirittura si pretende la dimostrazione di qualcosa che non si verificherà in futuro. Dimostrazione problematica, ad essere benevoli, come ci ricorda Cass. 5553/2020, non aderendo a canoni epistemologici basati sulla materialità dell’oggetto: per dirla con le parole di Andrea Pugiotto, la valutazione del pericolo di ripristino più che certezze evoca «sciamaniche capacità predittive». E se si pretendono dal condannato le allegazioni specifiche atte a dimostrare in termini di «certezza» le due suddette condizioni negative, è come voler riaffermare il carattere assoluto della presunzione di pericolosità derivante dalla mancata collaborazione: già per la prima (l’assenza dell’attualità di collegamenti) e a maggior ragione per la seconda (l’assenza del pericolo di ripristino) sarebbe impossibile per l’istante fornire prove dirette, trattandosi di «circostanze di fatto estranee alla sua esperienza percettiva». Al più il condannato potrebbe illustrare «gli elementi fattuali che abbiano concreta portata “antagonista” sul piano logico rispetto al fondamento della presunzione relativa di pericolosità» (Cass. 33743/2021), lasciando poi al giudice di sorveglianza il compito di svolgere un’istruttoria completa sull’assenza dell’attualità di collegamenti e di effettuare il giudizio prognostico rispetto al pericolo di ripristino. Tuttavia i termini categorici impiegati nel testo proposto non avallano questa ragionevole lettura che potrebbe rappresentare una accettabile scelta di compromesso nel necessario bilanciamento tra gli interessi in gioco (tutela dei diritti del condannato vs. contrasto a peculiari e gravi forme di criminalità).

E le scelte lessicali fatte (passiamo al secondo livello) hanno un grande peso pure sulla complessiva tenuta costituzionale del meccanismo ostativo delineato dal comma 1 dell’art. 4-bis ord. penit. Se non fosse per la chiusa finale del nuovo comma 1-bis che estende questo peculiare percorso probatorio anche agli altri condannati (non ergastolani) per uno qualunque dei reati di cui al comma 1 ai fini della fruizione del solo beneficio del permesso-premio, per costoro resterebbe in piedi l’invincibile presunzione di pericolosità desunta dalla mancata collaborazione. Evidente l’eterogenesi dei fini in cui incappa il legislatore: volendo irrigidire le condizioni di accesso alle misure di favore per i condannati a pena perpetua per reati di mafia non collaboranti – quelli che considera i più pericolosi tra i pericolosi –, in realtà apre loro le sbarre (seppur dopo multiple e complicate mandate di chiave), cosa che invece non fa per gli altri condannati a pena temporanea, la maggioranza, soprattutto se guardiamo ai più recenti innesti nell’eterogeneo elenco dei reati del comma 1, salvo che richiedano un permesso-premio. Come a dire: non c’è spazio senza collaborazione per uno degli altri benefici, lavoro all’esterno, semilibertà, ma pure detenzione domiciliare e affidamento in prova. Manifesta l’irragionevolezza del risultato che si raggiungerebbe se il nuovo testo restasse immutato, ulteriormente aggravata dal fatto che scompaiono dall’orizzonte della disciplina (attraverso la riscrittura del comma 1-bis) le ipotesi di concessione dei benefici per i condannati dai quali non si può pretendere la collaborazione effettiva ex art. 58-ter ord. penit. perché oggettivamente irrilevante o, come ha affermato la Corte costituzionale con le sentt. 357/1994 e 68/1995, impossibile o inutile (in questi casi la fruizione delle misure di favore è consentita sempreché gli istanti siano in grado di dimostrare l’assenza dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata).

Oltre questo, già più che sufficiente per rispedire al mittente la proposta, il testo licenziato si preoccupa di meglio precisare il ruolo assegnato nel procedimento di concessione a talune autorità pubbliche e l’incidenza del loro contributo nella decisione della magistratura di sorveglianza: previsioni preoccupanti per la sfiducia che lasciano intuire nel lavoro del giudice della pena. Il comma 2 dell’art. 4-bis ord. penit. viene modificato nella parte in cui specifica come vada individuato il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza chiamato a fornire «dettagliare informazioni»: non più in riferimento al luogo di detenzione dell’istante, ma «al luogo dove è stata emessa la sentenza di primo grado e, se diverso, anche di quello competente in relazione al luogo di dimora abituale del condannato all’epoca di inizio di esecuzione della pena, nonché in relazione al luogo dove il detenuto intende stabilire la sua residenza». Certo, forse sarebbe stato più utile precisare (come prevedeva la proposta C 1951 Bruno Bossio) la natura che debbono avere le dettagliate informazioni, vale a dire non devono contenere pareri sulla concessione dei benefìci, ma «elementi conoscitivi concreti e specifici fondati su circostanze di fatto espressamente indicate» e riferite al singolo detenuto; insomma, un corredo di elementi fattuali (non apodittiche opinioni) che consentano all’organo giurisdizionale di ponderare in maniera rigorosa, nel caso concreto, tenendo conto della condotta intra moenia e del percorso rieducativo svolto dall’istante, il superamento o meno delle condizioni ostative alla concessione delle misure di favore. In questo modo la magistratura di sorveglianza si riapproprierebbe del ruolo che le compete: “sorvegliare”, come suggerisce la denominazione, l’andamento della realizzazione della pretesa punitiva dello Stato per accertare se il periodo di pena espiato abbia o meno assolto al fine rieducativo imposto dall’art. 27 comma 3 Cost., consentendo al condannato di tornare a godere appieno del diritto all’inviolabilità della libertà personale ove l’obiettivo fosse stato raggiunto.

In verità, non solo non è stata recepita la specificazione riguardante la natura delle informazioni provenienti dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, ma introducendo un comma 2-bis il legislatore si preoccupa di “imbrigliare” dentro una articolata rete di «pareri», la decisione della magistratura di sorveglianza per condizionarne l’esito.  Il giudice, quando si tratta della concessione di benefici ai condannati ostativi, prima di provvedere, deve chiedere il parere dell’autorità inquirente (p.m. presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado e procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo), il quale, ove rilasciato e negativo, obbligherebbe il magistrato o il tribunale di sorveglianza ad un gravoso surplus motivazionale per l’ammissione alla misura di favore richiesta. Insomma si affaccia nell’ordinamento penitenziario la figura del “giudice sotto tutela”, perché colpevole di “non essere all’altezza del compito” quando deve concedere benefici o preservare i diritti dei condannati ritenuti socialmente pericolosi a priori; poco importa se, nel caso concreto, si tratta di persone che hanno scontato, magari in duri regimi detentivi, qualche lustro di pena e sono oramai lontani dalle logiche e dai legami criminali che li avevano visti protagonisti.

E a proposito dell’atteggiamento di sfiducia di certa politica nei confronti dei giudici di sorveglianza, forse l’unico pregio del testo in commento sta in ciò che non dice, non avendo recepito una delle più stupefacenti novità della proposta C 3106 Ferraresi: la creazione di un “super giudice” a cui affidare la decisione in merito alla concessione dei benefici penitenziari ai condannati per reati di contesto mafioso, in barba ad ogni regola sulla competenza. E questo inedito organo era stato individuato nel Tribunale di sorveglianza di Roma, già competente in materia di reclami avverso i decreti di sottoposizione al (e di proroga del) regime speciale dell’art. 41-bis comma 2 ord. penit.; una riforma che avrebbe riportato indietro di secoli il sistema penitenziario, depotenziando quel ruolo di garanzia della giurisdizione di sorveglianza imposto dall’art. 27 comma 3 Cost.

Ma si sa: i nostrani populismi giustizialisti hanno sempre dimostrato scarsa dimestichezza con il dettato costituzionale!

 

Lina Caraceni

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