26 Luglio 2025

La Corte Costituzionale “allunga i tempi” per il reclamo in materia di permesso di necessità

A cura di Matteo Pucci (Università di Pisa)

Modigliani, Ritratto di Deědie (1918)

Con la sentenza in esame la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 3º dell’art. 30-bis o.p. nella parte in cui prevedeva che l’interessato dovesse proporre reclamo contro il provvedimento di diniego di permesso di necessità del magistrato di sorveglianza entro ventiquattro ore dalla ricevuta notifica del suddetto provvedimento. In particolare, la pronuncia ha accolto la questione di costituzionalità riguardante il contrasto della menzionata norma con l’art. 24 Cost., ritenendo, invece, assorbita quella relativa all’art. 3 Cost. 

Il Giudice rimettente, Tribunale di sorveglianza di Sassari, ha esaminato il reclamo di un soggetto in vinculis che demandava di essere autorizzato a far visita alla sorella gravemente malata, tanto da non potersi recare a colloquio presso il carcere nel quale costui era detenuto. Con provvedimento del Magistrato di sorveglianza depositato il 4 aprile 2024 e notificato all’interessato il 6 aprile, l’istanza veniva rigettata, in ragione della persistente pericolosità sociale dell’interessato e dell’assenza di imminente pericolo di vita della sorella, stando al parere del medico legale. A questo punto, il difensore del “ristretto” effettuava, intanto, un primo reclamo ex art. 30-bis, c. 3º, o.p. lo stesso 6 aprile, riservandosi di formulare in seguito i motivi. Pochi giorni dopo, perfezionatasi la notifica del provvedimento di diniego, egli richiedeva alla cancelleria del Tribunale di sorveglianza il rilascio della documentazione medica e delle note della Questura di Reggio Calabria e della Direzione Antimafia che il Magistrato aveva ottenuto d’ufficio. Ricevute le copie in data 15 aprile, il difensore proponeva, il giorno seguente, un secondo reclamo, stavolta corredato dai motivi, con il quale chiedeva inoltre che fossero sollevate le questioni di legittimità costituzionale riguardanti la compatibilità della norma in esame con gli artt. 3 e 24 Cost., evidentemente ritenute rilevanti e non manifestamente infondate dal Tribunale. Su quest’ultimo profilo, il Giudice a quo ha osservato come il termine in discorso avesse natura perentoria e come la linea giurisprudenziale consolidata, assimili il reclamo avverso provvedimento di diniego di permesso di necessità ad un’impugnazione, nella quale, a pena di inammissibilità, debbono essere enunciati i motivi specifici. Il Tribunale rimettente ha altresì evidenziato come un così breve termine pregiudicherebbe l’efficace difesa dell’interessato, costretto entro ventiquattro ore ad ottenere la copia dei documenti istruttori posti a fondamento della decisione del magistrato di sorveglianza, redigere l’atto e depositarlo: adempimenti inesigibili in tempi tanto limitati. In questo senso, è stata richiamata anche la sentenza n. 113 del 2020 della Consulta, che stabilì il termine di quindici giorni per il reclamo avverso provvedimento di diniego di permesso premio, dichiarando incostituzionale, alla luce degli artt. 3, 27 e 24 Cost, il c. 7º dell’art. 30-ter o.p. Il Presidente del Consiglio dei ministri, invece, costituitosi in giudizio e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sostenuto che le questioni fossero manifestamente infondate, sul presupposto che l’istituto dei permessi di necessità sia caratterizzato da «estrema brevità e semplicità», correlate alla «situazione di urgenza allegata dall’interessato a fondamento della propria richiesta», escludendo, così, la violazione dell’art. 24 Cost. Non solo, a detta dell’Avvocatura generale dello Stato, l’istituto non sarebbe assimilabile a quello dei permessi premio, rispetto ai quali la dottrina riconosce una ratio non solo di umanizzazione della pena, ma anche rieducativa e special-preventiva,1 e quindi non sarebbe ipotizzabile neppure una violazione dell’art. 3 della Carta fondamentale. Anche a sostegno di quest’ultimo intervento è stata richiamata la sentenza della n. 113 del 12 giugno 2020 della Corte costituzionale, che, infatti, citando anche un ulteriore precedente (Corte cost. sent. n. 235 del 1996), sottolineava «la funzionalità del permesso premio alla finalità di graduale reinserimento sociale del condannato nella società, definendolo anzi come uno “strumento cruciale ai fini del trattamento”; [evidenziandone] la “profonda distinzione” rispetto al permesso cosiddetto di necessità previsto dall’art. 30 o.p.., istituto peraltro “non connaturato alla esecuzione della pena”».2 

La pronuncia del 2020, evidentemente richiamata da entrambe le parti del giudizio in parola, come anticipato, concludeva dichiarando incostituzionale l’art. 30-ter, c. 7º, o.p. Il nuovo termine di quindici giorni, proposto dalla Corte per il reclamo nei confronti del provvedimento di diniego di permesso premio, veniva ricavato da quello previsto dal comma 4 dell’art. 35-bis o.p., disposizione relativa al reclamo giurisdizionale avverso le decisioni delle autorità penitenziarie che incidono sui diritti del detenuto, introdotta dal d.l. 23 dicembre 2013, n. 146 3. Una siffatta operazione “manipolativa” della Corte costituzionale si giustificava in virtù dell’inerzia del legislatore, 4 già chiamato a prendere posizione sul punto nella sentenza n. 135 del 1996, con cui il Giudice delle leggi si limitò a dichiarare inammissibile la questione di costituzionalità riguardante il termine previsto dal c. 7º dell’art. 30-ter o.p., pur ravvisandone l’irragionevolezza. Nel 1996 fu determinante, ai fini dell’intervenuta sentenza di rigetto, la mancanza di una «conclusione costituzionalmente obbligata che permett[esse] a questa Corte di porre rimedio alla brevità del termine per proporre reclamo avverso il decreto del Magistrato di sorveglianza in materia di permessi premio rideterminandolo essa stessa», alla luce della c.d. teoria delle “rime obbligate”,5 una tecnica retorica in grado di giustificare interventi pretori innovativi ma, allo stesso tempo, volta a contenerne la creatività.6 In quel frangente, infatti, la Consulta «aveva ritenuto di doversi arrestare a una pronuncia di inammissibilità della questione prospettata, in considerazione della disomogeneità dei tertia comparationis indicati dal giudice a quo». 7 Con la sentenza n. 113 del 2020, invece, in continuità con la nuova linea interpretativa della Consulta, le “rime obbligate” hanno ceduto il passo ad una pronuncia “manipolativa”, giustificata da tre elementi: il coinvolgimento di diritti fondamentali, la presenza di una soluzione “adeguata” nel sistema e l’inerzia del legislatore, già ammonito nel 1996. 8

La Corte ha ritenuto fondata la questione relativa all’art. 24 Cost., considerando assorbita quella riguardante l’art. 3. Quanto all’ammissibilità delle questioni, preliminarmente, è stato evidenziato come, intanto, il primo dei due reclami proposti, alla luce della disciplina vigente, sarebbe inammissibile in quanto privo di motivi. In questo senso, si ricordi il principio espresso dalla Corte di cassazione secondo cui «il reclamo previsto in materia di permessi ha natura di mezzo di impugnazione e, come tale, deve – a pena di inammissibilità – essere corredato da specifici motivi che vanno, anch’essi, presentati nel termine di ventiquattro ore previsto dall’art. 30 bis, c. 3º, richiamato dall’art. 30 ter, penultimo comma, o.p. (tra le altre, Sez. 1, n. 2593 del 30/03/1999, dep. 07/06/1999, Arrigo, Rv. 213488; Sez. 1, n. 16254 del 23/03/2006, dep. 11/05/2006, Costantino, Rv. 234299».9 Il secondo dei reclami effettuati dal difensore dell’interessato, invece, stando alla norma in esame, sarebbe risultato tardivo, in quanto presentato oltre ventiquattro ore dopo la notifica del provvedimento di rigetto. Diversamente, l’accoglimento della questione di costituzionalità posticiperebbe il termine per la proposizione del reclamo, rendendolo perciò esaminabile nel merito. È sulla base di quest’ultimo rilievo che il Giudice delle leggi ha accertato la rilevanza delle questioni. Venendo alla fondatezza della questione di costituzionalità, la Consulta ha sottolineato che, per quanto, come poc’anzi riportato, la sentenza n. 113 del 2020 avesse evidenziato la differente finalità delle due tipologie di permesso – rieducativa e di incentivo alla collaborazione con l’istituzione carceraria quanto ai permessi premio, 10 di umanizzazione dell’esecuzione penale quanto ai permessi necessità 11– già all’epoca si era ritenuto «irragionevole al metro dell’art. 3 Cost, […] la previsione di un unico termine di ventiquattro ore sia per il reclamo avverso il provvedimento relativo ai permessi “di necessità” – rispetto ai quali la brevità del termine appare correlata, nell’ottica del legislatore, alla situazione di urgenza allegata dall’interessato a fondamento della propria richiesta –, sia per il reclamo contro la decisione sui permessi premio, rispetto alla quale tali ragioni di urgenza certamente non sussistono».12 Ebbene, con lo stesso meccanismo con il quale allora venne modificato il termine per il reclamo avverso i provvedimenti di diniego di permessi premio, con la pronuncia in commento lo stesso termine è stato riconosciuto per il reclamo avverso i provvedimenti di diniego di permessi di necessità.  Le menzionate argomentazioni dell’Avvocatura generale dello Stato, sulla differente ratio dei due istituti, sono state superate dalla Corte costituzionale in considerazione del fatto che, per quanto essi rispondano evidentemente ad esigenze molto diverse, 13 ciò «non osta a che il termine per proporre reclamo, per il detenuto, sia reso omogeneo dalla presente pronuncia in relazione a entrambi i benefici, come già – del resto – accadeva nell’originario disegno del legislatore». Inoltre, ed a conferma di ciò, la Consulta effettua un’osservazione che mette in rilievo un risvolto pratico dell’istituto: «in presenza di ragioni di particolare urgenza, sarà interesse del detenuto presentare il più presto possibile la propria impugnazione, sì da porre il giudice del reclamo in condizione di pronunciarsi a sua volta entro i dieci giorni successivi, come prescritto dal quarto comma dell’art. 30-bis». Stavolta, come detto, il Giudice delle leggi ha ritenuto fondata nel merito la questione relativa all’art. 24 Cost, considerando assorbita quella formulata ex art. 3 Cost. Nonostante questa discrepanza rispetto alla rammentata sentenza n. 113 del 2020, in cui si ritennero fondate le questioni relative agli artt. 3, 24 e 27, comma 3, Cost., nel corpo della pronuncia in discorso si fa esplicito richiamo a quella antecedente. In particolare, è stata messa in evidenza la lesione all’effettività del diritto alla difesa da parte di un termine tanto breve da non poter essere ritenuto compatibile con la necessità, per l’interessato, «di articolare compiutamente nello stesso reclamo, a pena di inammissibilità, gli specifici motivi in fatto e in diritto sui quali il tribunale di sorveglianza dovrà esercitare il proprio controllo sulla decisione del primo giudice». Nella stessa ottica, si pone l’accento sulla «pratica impossibilità, per una persona ristretta in carcere, di ottenere entro il termine di ventiquattro ore copia di tutti i documenti acquisiti ex officio dal giudice che ha pronunciato il provvedimento di cui il ricorrente si duole. Documenti che il reclamante potrebbe non conoscere affatto, dal momento che il provvedimento impugnato è assunto de plano dal giudice, al di fuori di ogni contraddittorio con le parti».

La Consulta, infine, ritornando anche sulla ratio dell’istituto de quo, ha precisato che rimane immutato il termine di ventiquattro ore per il reclamo da parte del pubblico ministero stabilito dal c. 3º dell’art. 30-bis o. p. Tale decisione pare giustificarsi alla luce del fatto che la questione di costituzionalità oggetto del giudizio è calibrata unicamente sull’esigenza di garantire il diritto alla difesa del detenuto e, al contrario, il prolungamento del termine per l’impugnazione, laddove l’istanza di permesso fosse accolta, comporterebbe «un effetto pregiudizievole per lo stesso detenuto, frustrando le stesse ragioni di urgenza poste alla base del permesso». Resta ovviamente ferma la possibilità per il legislatore di stabilire un diverso termine, purché idoneo ad assicurare il pieno esplicarsi del diritto alla difesa tutelato dall’art. 24 della Carta fondamentale. 

Note

  1. Cfr. N. Galati, È costituzionalmente illegittimo il termine di 24 ore per impugnare il provvedimento relativo ai permessi premio, in Penale DP, 22 settembre 2020
  2. Corte cost., 12 giugno 2020, n. 113
  3. Per approfondimenti sulla normativa A. Della Bella, Un nuovo decreto-legge sull’emergenza carceri: un secondo passo, non ancora risolutivo, per sconfiggere il sovraffollamento, in Dir. pen. cont., 14 gennaio 2014
  4. In argomento, diffusamente, E. Cocchiara, L’evoluzione dei moniti della Corte costituzionale al legislatore: un bilancio a settant’anni dalla l. 87 del 1953, in Gruppo di Pisa, 2023
  5. In tema D. Tega, La traiettoria delle rime obbligate, in Sistema penale, 3 febbraio 2021
  6. R. Adorno, Il termine per il reclamo in materia di permessi premio tra “rime obbligate” e “soluzioni già esistenti nel sistema”, in Giur. cost., 2020 (3), p. 1272
  7. Ivi, p. 1269
  8. Cfr. D. Martire, Giurisprudenza costituzionale e rime obbligate: il fine giustifica i mezzi? Note a margine della sentenza n. 113 del 2020 della Corte costituzionale, in Osservatorio costituzionale, novembre 2020, p. 244
  9. Cass. sez. I, 10 aprile 2014, n. 15982, in CED, Rv. 261989.
  10. Corte cost., 6 giugno 1995, n. 227; in dottrina, G. Zappa, Il permesso premiale: analisi dell’istituto e profili operativi, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 1988, p. 5
  11. Corte cost., 4 luglio 1996, n. 235.
  12. Corte cost., 12 giugno 2020, n. 113, cit.
  13. Nonostante entrambi gli istituti siano strumenti di sostegno al detenuto (Cfr. L. Filippi, G. Spangher, M. F. Cortesi, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 2019).

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