24 Marzo 2025

Un nuovo colpo di maglio della Corte costituzionale sul regime delle prescrizioni inerenti al carcere duro (sentenza 30/2025)

A cura di DOTT. CARMELO CANTONE

Ancora una volta la Corte costituzionale interviene con una sentenza di accoglimento di una questione di legittimità costituzionale riguardante disposizioni contenute nell’articolo 41 bis comma 2 dell’Ordinamento penitenziario.

La sentenza n. 30 del 2025 con la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art.41 bis, comma 2-quater, lett.f) O.P., sulla previsione di un limite massimo di due ore al giorno di permanenza all’aperto per i detenuti sottoposti al suddetto regime, è pienamente in sintonia con la giurisprudenza che progressivamente si è affermata in questi anni.

Vi è infatti un solido filo logico di coerenza che lega questa sentenza alla visione complessiva che la Corte ha mantenuto sin dalle prime importanti sentenze degli anni 90 sul 41 bis. Pensiamo, tra le altre, alle sentenze n.349 e n.410 del 1993, alla sentenza n.351 del 1996, alla sentenza n.376 del 1997. È bene ricordare che le stesse dichiararono tutte l’infondatezza della questione, sostanzialmente “salvando” il regime 41 bis, ma sollecitando il legislatore a dare alla norma un preciso dettaglio legislativo, senza lasciare spazio a prescrizioni sul regime partorite esclusivamente in via amministrativa/ governativa.

Oggi ci interessa sottolineare che da quella giurisprudenza è stato con forza espresso il principio che le misure di restrizione del 41 bis non devono essere “eccedenti il sacrificio della libertà personale già discendente dallo stato di detenzione”. Questo principio è stato ribadito nel tempo dalla Corte anche in una serie di sentenze che non riguardavano il regime 41 bis (sentenze n.212/1997, n.26/1999, n.526/2000), Ma poi è stato ripreso in diversi pronunciamenti che trattavano specificamente disposizioni contenute nell’art. 41 bis comma 2. Su tutto questo la prima norma costituzionale di riferimento era ed è l’art. 13 Cost. in lettura combinata con l’art.27 c.3.

Negli ultimi 13 anni accanto al principio appena citato la Corte ne ha esplicitato un altro che riprendiamo dalla sent.n.30 del 2025:” Non può esservi un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango”.

Sappiamo che la Corte costituzionale, anche richiamando l’art.8 CEDU, in tema di sicurezza, ha più volte ribadito che la ratio del regime 41 bis è fondata sulla necessità di separare dalla restante popolazione detenuta gli esponenti di particolare spessore della criminalità organizzata e soprattutto di impedire contatti con l’esterno che potenzialmente possano consentire di proseguire la loro attività criminale, minando pertanto la sicurezza pubblica.

L’obiettivo del sistema 41 bis è e deve essere quello di garantire questa separazione. Restrizioni ulteriori rispetto a questo assetto si porrebbero in violazione del principio di divieto di misure che incidano ingiustificatamente sul residuo di libertà che spetta ad ogni detenuto, ma violerebbero anche la ragione per cui è stato creato il regime 41 bis, così come è stato poi più a fondo articolato grazie alla giurisprudenza della Corte e di seguito con le leggi n.279 del 2002 e n.94 del 2009.

Quest’ultima legge si caratterizzò per un significativo aggravamento delle restrizioni del regime 41 bis. Ma è da quella fase che si sono sviluppate le richieste di intervento alla Corte per valutare la legittimità costituzionale di alcune disposizioni che erano irragionevoli prima di tutto attraverso il filtro fondamentale dell’art.3 Cost. L’elemento della irragionevolezza emerge quando la disposizione nulla aggiunge allo scopo di evitare contatti del detenuto con l’esterno, mentre invece spesso va a incidere su bisogni “semplici” e che, come tali, non vengono valutati come superflui dalla Corte.

Basti vedere come il giudice costituzionale, dichiarando l’illegittimità costituzionale della disposizione che vieta al detenuto sottoposto al 41 bis di cucinare cibi, vuole affermare (sent. N.186/2018) che “si tratta di riconoscere che anche chi si trova ristretto secondo le modalità dell’art. 41 bis O.P. deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui poi espandersi la sua libertà individuale”.

La coerenza della Corte è palese se ci rifacciamo alla sentenza che stiamo commentando insieme alle sentenze n.143 del 2013 (sul limite settimanale di colloqui e telefonate ai difensori in violazione dell’art. 25 Cost.) e n.97 del 2020 (sul divieto di cessioni di beni tra detenuti anche appartenenti allo stesso gruppo di socialità).

La Corte non mette in discussione, men che meno smantella il regime 41 bis e ancora una volta nella sentenza in commento vuole ribadire che “il regime speciale intende soprattutto evitare che gli esponenti dell’organizzazione in stato di detenzione, sfruttando il normale regime penitenziario, possano continuare ad impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche dal carcere, il controllo sulle attività delittuose dell’organizzazione stessa”.

Queste sono le coordinate della Corte, ed ecco perché nella sentenza n.97/2020 si era voluto precisare che devono essere esclusi dal regime 41 bis “significati meramente afflittivi”. Un riferimento centrale nello sviluppo delle sentenze che abbiamo citato e di altre ancora è la congruità del bilanciamento: se la misura non è motivata dall’esigenza di tutelare la sicurezza pubblica, nei termini sopraesposti, non ha ragione di essere.

Nella sentenza in commento la Corte ha voluto ancora una volta sottolineare che non intende sovrapporsi al legislatore con proprie scelte ma solo ricondurre una norma nell’alveo della legittimità costituzionale. Soprattutto dopo la ormai citatissima sentenza n.10 del 2024 da più parti sono state sollevate riserve sul rapporto tra sindacato di costituzionalità, discrezionalità del legislatore e principio di legalità, dopo che la Corte ha “suonato la sveglia” al legislatore inerte, dettando disposizioni cogenti in tema di diritto all’affettività dei detenuti rivolte direttamente al ministero della giustizia ed alla magistratura di sorveglianza.

Ma la sentenza n.30 può essere considerata esente da questo tipo di critica, poiché alla luce degli artt.3 e 27 Cost. la Corte ha ritenuto che riconoscere solo due ore di permanenza all’aperto, rispetto alle quattro riconosciute dall’art. 10 O.P. per tutti gli altri detenuti non rispetta la congruità del bilanciamento, non costituisce uno strumento per evitare contatti e mantenimento di attività delittuose, anche perché lo stesso legislatore aveva creato lo strumento di controllo del “gruppo di socialità” (non più di quattro persone che possono fare attività in comune). Quindi due ore di permanenza all’aperto anziché quattro non servono ad evitare alcun rischio di contatto criminale. L’importanza della scelta del gruppo di socialità era stata individuata dalla Corte già nella sentenza n.97/2020 (il divieto di gestione di beni di modico valore non vale se la cessione è all’interno dei componenti del gruppo di socialità).

L’approccio del giudice costituzionale nel caso in questione mi ha richiamato qualche ricordo. Mi riferisco in particolare a quando Nicolò Amato, allora capo dell’amministrazione penitenziaria, ragionava sul senso di alcune restrizioni nei confronti di detenuti classificati come pericolosi. Perché ridurre al minimo la permanenza all’aperto se ciò non è funzionale ad alcuna esigenza di sicurezza?

Credo che ancora oggi da parte del legislatore e anche dell’amministrazione penitenziaria bisogna riflettere e agire sulla congruità del bilanciamento.

La Corte ritenendo applicabile l’art.10 O.P., a causa della dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 41 bis comma 2-quater lett. f), ha voluto evidenziare che l’attuale contenuto dell’articolo 10 O.P. discende dalla riforma del D.lg. n.123 del 2018, che ha previsto la possibilità da parte del direttore dell’istituto di ridurre fino a due ore la permanenza all’aperto per” giustificati motivi” e non più, come prima della modifica del 2018, per “motivi eccezionali”. Una formula più ampia di discrezionalità che la Corte sembra rimarcare all’attenzione dell’amministrazione penitenziaria, quasi per attutire i problemi organizzativi che discendono dall’applicazione immediata di questo pronunciamento.

Su questo aspetto bisogna rilevare come la formulazione dei “giustificati motivi” risulta più compatibile con la circolare del DAP n.3676/6126 del 2.10.2017 su “Organizzazione del circuito detentivo speciale previsto dall’art.41 bis O.P.”, dove si parlava di due ore di permanenza all’aperto “compatibilmente con l’organizzazione dell’istituto e con l’esigenza di garantire a tutti i detenuti lo stesso trattamento”.

Sottolineo questi aspetti perché veniamo da anni di contenziosi presso la magistratura di sorveglianza di vari territori, investita di ricorsi ex art.35 bis O.P., a causa della mancata concessione della seconda ora di permanenza all’aperto. Dovremo allora immaginare che da domani la questione sarà spostata sulla concessione della terza o quarta ora?

Si aggiunga che la centralità del concetto “gruppo di socialità” ha portato fino ad oggi l’amministrazione penitenziaria ad escludere che la permanenza del gruppo in spazi interni di socialità (palestra, sala lettura) per non più di un’ora debba essere calcolata all’interno delle due ore (d’ora in poi quattro). È così che si è assistito al paradosso di alcuni detenuti che fruivano solo di un’ora di permanenza all’aperto (in assenza di un pronunciamento del magistrato di sorveglianza) più una di socialità, mentre altri detenuti a questo trattamento sommavano, grazie ad ordinanza ex art. 35 bis O.P., un’ora solitaria di permanenza all’aperto.

Su queste dinamiche si potranno verificare le azioni del DAP, poiché è difficile pensare che non si arrivi ad un’indicazione del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria valida per tutto il territorio nazionale; anche se è facile immaginare le criticità organizzative che si rinnoveranno. Ad esempio: quanti cortili sono necessari per garantire quattro ore di permanenza all’aperto a x gruppi di socialità?

Ancora una volta i principi devono misurarsi con la spazialità del carcere.

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