Con la presente sentenza la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dal ricorrente avverso l’ordinanza del 4.12.2020 del Tribunale di Sorveglianza di Roma.
La giurisprudenza di legittimità è giunta a tale conclusione sostenendo l’infondatezza delle censure proposte per le ragioni che seguono.
La Corte, in primo luogo, ha sottolineato come il controllo di legittimità ad essa affidato in materia dei provvedimenti di applicazione o proroga del regime detentivo ai sensi dell’art. 41-bis o.p., è circoscritto alla violazione di legge, «cosicché, quanto alla motivazione, gli unici rilievi che possono trovare ingresso sono quelli che ne rappresentano la mancanza sotto il profilo dell’assenza dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità in relazione agli elementi sui quali deve cadere la verifica dei presupposti di legge in modo da risultare la motivazione per la mancanza dei suindicati requisiti solo apparente giacché assolutamente inidonea a rendere comprensibile l’iter logico seguito dal giudice di merito nel pervenire alla decisione».
Invero, solo in tali ipotesi è configurabile una violazione di legge, risultando il provvedimento privo del requisito di motivazione richiesto dall’art. 125 c.p.p. e dal comma 2-sexies dell’art. 41-bis o.p.
Premesso ciò la Corte, riprendendo quanto ormai pacifico nella giurisprudenza costituzionale, ha ribadito che l’applicazione del regime differenziato di cui all’art. 41-bis, co. 2, o.p., mira a contenere la pericolosità dei singoli detenuti, evitando che gli esponenti dell’organizzazione in stato di detenzione possano continuare ad impartire direttive agli affiliati che si trovano in stato di libertà.
Ai fini dell’adozione del provvedimento di applicazione di tale regime sono necessari elementi tali da far ritenere esistenti collegamenti con associazioni criminali, terroristiche o eversive.
Ai fini della sua proroga invece, rileva la permanenza di quelle apprezzabili condizioni di pericolo che avevano giustificato originariamente il regime speciale, tra cui: profilo criminale e posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, perdurante operatività del sodalizio criminale, sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, esiti del trattamento penitenziario e del tenore di vita dei familiari del sottoposto (art. 41-bis co. 2 o.p.).
La giurisprudenza di legittimità ha dichiarato il provvedimento impugnato attenuto a tali criteri.
In secondo luogo, la Corte di Cassazione ha posto l’attenzione sul terzo motivo di ricorso (violazione delle norme costituzionali e convenzionali in tema di irretroattività della legge penale, nel caso di protrazione del regime di sorveglianza speciale per l’espiazione di pena inflitta in relazione a reati non ostativi commessi prima dell’entrata in vigore nell’ordinamento del regime detentivo di cui all’art. 41-bis o.p.) definendolo privo di pregio.
Precisamente, la difesa ricorrente sostiene che la proroga del regime speciale nei confronti dei condannati che hanno in esecuzione la parte di pena inflitta per i fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, costituisca violazione del divieto di applicazione retroattiva della disciplina relativa all’esecuzione della pena e che, conseguentemente, il 41-bis, co. 2, o.p., laddove afferma che “in caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare il regime speciale è comunque applicabile anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nell’art. 4 bis”, deve essere interpretato restrittivamente, così da evitare tale effetto.
Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità non ritiene tale assunto condivisibile.
La stessa Consulta ha precisato che il divieto di applicazione retroattiva delle modifiche normative inerenti alle modalità esecutive della pena, non è la regola. Il legislatore, quindi, può introdurre legittimamente deroghe, dovendo evitarsi «un rigido e generale divieto di applicazione retroattiva di qualsiasi modifica della disciplina relativa all’esecuzione della pena» alla «incontrollata creazione e proliferazione di regimi esecutivi paralleli» e, soprattutto, all’«introduzione di trattamenti penitenziari diversi tra detenuti […] con tutte le intuibili conseguenze sul piano del mantenimento dell’ordine all’interno degli istituti, che è esso pure condizione essenziale per un efficace dispiegarsi della funzione rieducativa della pena».
Invero, il legislatore, mediante l’art. 41-bis co. 2 ultima parte, o.p., ha inteso evitare che il trattamento penitenziario dei detenuti sottoposti al regime differenziato, dei quali è stata accertata l’elevata ed attuale pericolosità, muti improvvisamente nel corso dell’esecuzione unitaria e senza soluzione di continuità. Viceversa, si creerebbe un trattamento differenziato non ragionevole tra detenuti nella medesima situazione perché parimenti condannati per reati ostativi e pericolosi.
La Corte di Cassazione precisa che anche la regola della pena unica ai fini del regime speciale non viola il limite del divieto di irretroattività che concerne «le modifiche normative in grado di determinare una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato» (es: al momento del fatto è prevista una pena suscettibile di essere eseguita al di fuori della struttura carceraria ma, a seguito di una modifica normativa sopravvenuta, la sua esecuzione deve avvenire nel carcere).
Infine, la Corte, circa l’ultimo motivo sostenuto dal ricorrente (in cui si prospetta l’incompatibilità tra ergastolo in regime di 41-bis o.p. ed i principi affermati nella Convenzione EDU), ha evidenziato che, a seguito dell’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario, la pena dell’ergastolo ha concluso di essere una pena perpetua; conseguentemente, essa non può definirsi contraria al senso di umanità, ed ha precisato che alla luce della giurisprudenza della Corte EDU non vi è un’incompatibilità strutturale tra l’adozione del regime carcerario differenziato e i contenuti degli articoli 3 (il regime speciale ha natura temporanea e assicura al detenuto spazi minimi incomprimibili di relazionalità) e 8 (misura dettata dalla necessità di neutralizzare l’allarme sociale derivante dal mantenimento, da parte del detenuto, delle relazioni con l’esterno) della Convenzione.
Qui il testo della sentenza.
A cura di Yasmine Spigai