«Spavaldi e fragili. Storie di ragazzi redenti». Recensione a Claudio Burgio, “Non vi guardo perché rischio di fidarmi”, San Paolo editore, 2024.

Don Claudio Burgio, presidente dell’Associazione Kayròs e cappellano dell’Istituto Penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano, attraverso questo libro ci offre un’ampia testimonianza della Sua esperienza.

Fin dall’inizio della Sua missione spirituale, avviata, come lui stesso racconta, nel 1996 presso il quartiere di Lambrate, nella periferia di Milano, si è confrontato con situazioni di disagio giovanile, offrendo ai minori stranieri non accompagnati cibo e ospitalità nel proprio oratorio.

Così nasce la Sua vocazione (<una vocazione dentro la vocazione sacerdotale>) e apre la prima casa di accoglienza, denominata Kayròs.

L’associazione, oggi, accoglie ragazzi di sesso maschile sia italiani che stranieri con un’età compresa tra i quattordici e i venticinque anni che possono essere oggetto di un procedimento (civile, amministrativo o penale) aperto dal Tribunale per i minorenni.

Nel corso di questo tortuoso cammino, Don Burgio ha avuto la possibilità di conoscere le storie, talvolta drammatiche, di moltissimi giovani e si convince che il miglior “strumento” con cui accompagnarli nel loro percorso di crescita fosse la fiducia, <la fiducia che educa>.

L’Autore ripercorre le storie di alcuni adolescenti ospitati nella Comunità per dimostrare che solo attraverso l’ascolto, il dialogo e la comprensione è possibile aiutare ragazzi “difficili” e, in questa sede, vorremmo evidenziare particolari che sembrano significativi. Bilal, marocchino, soprannominato “baby rapinatore seriale” a causa dei furti che reiteratamente effettuava nella zona della stazione Centrale di Milano.

Dopo essere fuggito da molte Comunità, fu accolto in Kayròs dove di giorno dormiva e di notte usciva (“per lavorare”).

Dopo un po’ di tempo iniziarono a notare i primi cambiamenti: migliorò dal punto di vista igienico e iniziò a partecipare alle attività, in particolare quelle sportive, infatti, amava il calcio e decise di entrare nella squadra della Comunità. Bilal, finalmente, scelse di fermarsi in Comunità, <voglio costruire un futuro diverso> – disse in un’intervista – <per questo non sono più scappato>.

Imparò l’italiano e riprese gli studi.

Al termine del percorso scolastico riuscì ad ottenere il diploma di licenza media. Zaccaria, in arte Baby Gang, conobbe Don Claudio durante il periodo di detenzione presso l’Istituto Cesare Beccaria e gli chiese di essere accolto presso la Comunità Kayròs.

La sua aspirazione era diventare un cantante.

Sebbene con qualche perplessità iniziale, Don Claudio accettò e dopo qualche settimana il ragazzo entrò a far parte della sua Comunità.

Qui ebbe la possibilità di studiare musica, scrisse nuove canzoni e riuscì a registrarle negli studi di registrazione.

Zaccaria aveva già fallito undici percorsi comunitari e le relazioni dei servizi sociali lo descrivevano come un ragazzo privo di fiducia e disorientato; invece, l’Autore racconta che ai suoi occhi e agli occhi degli educatori di Kayròs, sembrava un ragazzo diverso.

Baby gang, oggi, è un famoso rapper, conosciuto sia a livello nazionale che internazionale.

Zaccaria non è l’unico ragazzo – poi diventato un rapper famoso – accolto in Kayròs: Neima Ezza, Simba La Rue, Sacky (ecc.) sono cantanti famosi che, grazie a Don Claudio, hanno avuto la possibilità di coltivare la loro passione.

Avere “qualcosa” cui dedicarsi (vuoi la passione per uno sport vuoi la passione per un’arte) probabilmente è stata la molla che ha consentito loro di ritrovare la fiducia persa nel corso degli anni.

In fondo, tutto si riduce alla fiducia: Don Burgio ha avuto fiducia nei sogni di questi ragazzi e ha dato loro l’opportunità – il Kairòs, appunto – di realizzarli, senza la presunzione di sapere cosa potesse essere meglio per il loro futuro. Purtroppo, non sempre le cose vanno secondo i piani e i ragazzi, a volte, commettono ulteriori reati e vengono nuovamente incarcerati.

Secondo l’Autore è doloroso vedere il fallimento dei progetti educativi, ma non bisogna mai perdere la fiducia. Ogni ragazzo è diverso, alcuni hanno bisogno di più tempo, di più “fallimenti” per cambiare; Di conseguenza, ogni ricaduta <non è la ripetizione dell’identico> ma un passo verso il cambiamento.

Per dare riscontro a quanto appena detto, si riporta la storia di Daniel.

Un ragazzo molto difficile, ingestibile, arrivato prima al Beccaria, dove è rimasto per tre anni, poi traferito in Kayròs per l’affidamento in prova.

Anche se a fatica, Don Claudio riuscì ad instaurare un rapporto con Daniel e fu proprio questo legame che lo <<ribaltò completamente>>.

Terminato l’affidamento in prova, il ragazzo tornò a casa sua ma dopo pochi mesi venne arrestato nuovamente e finì a San Vittore, essendo maggiorenne.

Una sconfitta, che, però, gli consentì di intraprendere un nuovo percorso di maturazione.

Partecipando a un gruppo di cineforum, incontrò un’insegnante in pensione, Fiorella, che fu fonte di grandi stimoli.

Dopo il periodo di detenzione, infatti, decise di riprendere gli studi, riuscì a conseguire il diploma di maturità e si laureò prima nel corso triennale di scienze dell’educazione presso l’Università Cattolica di Milano, poi nel corso magistrale presso la sede di Brescia.

Oggi è un educatore. La fiducia è il leitmotiv del libro di Don Burgio ed è l’innesco che avvia il percorso di crescita.

Dare fiducia a ragazzi “problematici” vuol dire credere in loro e nelle loro potenzialità, forse prima ancora che loro credano in se stessi, e, perfino, prima ancora che loro conoscano se stessi.

Questo è quello che Don Claudio ripete ai suoi ragazzi: “conosci te stesso, immediatamente, per ritrovare fiducia”.

Non bastano belle parole, pronunciate con tono convincente per far sì che, effettivamente, avvenga il miglioramento.

Un ragazzo ha bisogno di una persona che lo accompagni in ogni tappa del suo cammino, <che si sporchi le mani con lui> e che lavori per lui.

Considerando che, spesso, gli adolescenti non si fidano degli adulti, questi devono riuscire a far breccia in quel muro solido che i giovani si costruiscono per “mettersi al riparo” dal mondo, cosicché possano superare le barriere alzate dalla loro diffidenza.

Per riuscire in questa impresa Don Claudio si cala nella vita del giovane: cerca di capirne le abitudini, frequenta il suo quartiere, prova ad apprendere il gergo della sua zona, avvicinando il suo mondo a quello del ragazzo. In questo modo cambia la percezione dell’adulto, non più una figura autoritativa, ma un compagno che, allo stesso tempo, fa da guida.

Com’è ovvio, il percorso di autoconoscenza, che porta al cambiamento, non prescinde da ricadute.

Purtroppo, spesso, a fronte di questi fallimenti, i genitori si sdegnano e la disperazione fa perdere loro la fiducia nei propri figli.

Tuttavia, Don Claudio ci insegna che la differenza è data proprio dalla reazione a questi errori, che non può essere di biasimo, ma di ascolto, cosicché anche l’errore possa diventare un’occasione di crescita e di responsabilizzazione.

Attraverso queste testimonianze Don Burgio ci mette a conoscenza del Suo metodo educativo, impegnativo, senza dubbio, ma fonte di grandi soddisfazioni.

L’Autore vuole dire a gran voce che non servono gli psicofarmaci, non servono leggi dure e severe, perchè questi non fanno altro che alimentare il senso di rabbia, frustrazione e smarrimento nei giovani, li anestetizza e aumenta il loro senso di rassegnazione.

Bisogna partire dalle radici: conoscere il ragazzo attraverso il dialogo, l’ascolto e capire come intervenire, nella convinzione che questi ragazzi non rispondono al pugno duro.

L’adolescente ha bisogno di un compagno di viaggio, un Virgilio, che gli faccia da guida, passo dopo passo, per affrontare gli ostacoli del percorso di crescita e per prepararlo a vivere il suo futuro, fino a quando non sarà pronto ad affrontare il mondo con le proprie capacità.

Dare fiducia significa mettere questi ragazzi nella condizione di decidere autonomamente di continuare il loro percorso di crescita. Prima di tutto, devono essere loro a voler migliorare.

Ecco perchè in Kayròs le porte sono sempre aperte, ventiquattro ore su ventiquattro: la permanenza all’interno della comunità non deve essere una costrizione, ma frutto di una scelta consapevole.

Don Claudio non vuole sostituirsi ai ragazzi nell’assunzione delle loro decisioni; infatti, quando uno di loro lo chiamò per chiedergli di rimanere fuori oltre l’orario del coprifuoco, non gli diede una risposta, ma lo invitò a riflettere e decidere da solo.

Mettere gli adolescenti nella condizione di effettuare le proprie scelte, anche sugli aspetti più semplici della vita quotidiana, significa farli ragionare sui rischi che corrono e, quindi, sulle conseguenze che possono derivare dalle loro azioni. Questo contribuisce ad aumentare il loro senso di responsabilità.

Non lascia stupiti sapere che Don Claudio crede in un modello di giustizia di tipo riparativo e riconciliativo che consenta un incontro tra vittima e autore del reato.

L’Autore riporta alcuni momenti di dialogo tra i ragazzi accolti in Kayròs e le persone offese (mogli di mariti assassinati o madri di figli uccisi), dove le storie di queste ultime lasciano sempre sbalorditi.

Alla base dell’organizzazione di tali incontri vi è la convinzione che l’entrare in contatto con la sofferenza nata dall’aver subito un danno derivante da un fatto di reato, faccia, ai ragazzi, prendere consapevolezza delle conseguenze delle loro scelleratezze e dell’ingiustizia del fatto compiuto.

Con questa presa di coscienza si contribuirebbe alla responsabilizzazione degli adolescenti. Don Burgio in una pagina del Suo libro racconta, infatti, che uno dei sette ragazzi (<babbi-Natale>) evasi dall’Istituto Beccaria il 25 dicembre 2022 è andato ad abitare in Kayròs e, nonostante i cancelli siano sempre aperti, durante la permanenza in Comunità non è fuggito.

Quali conclusioni possiamo trarre dal libro di Don Claudio?

Probabilmente la Sua esperienza testimonia il fallimento, spesso, del sistema repressivo-punitivo, e ci dimostra che abbandonando lo strumento del castigo e la coercizione si possono ottenere grandi risultati.

Il cambiamento dei ragazzi è un miglioramento a lungo termine, non è circoscritto al periodo di detenzione per ottenere un qualche beneficio, ma rispettare il prossimo e vivere secondo i principi della società diventa il loro stile di vita.

Ci dovremmo, quindi, interrogare sull’effettiva utilità degli inasprimenti di pena e del maggior ricorso al carcere, poiché, apparentemente, la <parola orale> si presenta come il miglior rimedio alla devianza giovanile.

L’Autore non ha dubbi: “non è l’immobilismo di un carcere che genera cambiamento in un ragazzo, non è la parola scritta di un decreto che viene da fuori a fermare un adolescente a distoglierlo dalle sue condotte criminali, ma la parola orale di un maestro che scava dentro la coscienza e accompagna il nascere delle grandi domande della vita, mettendosi in viaggio alla ricerca condivisa della verità”.

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