A pochi giorni dalla pubblicazione della sentenza n.10/2024 della Corte costituzionale si possono sviluppare alcune prime considerazioni., con la certezza che quest’ultimo arresto della Corte, non chiude una vicenda, ma apre un nuovo scenario nel sistema penitenziario. Possiamo immaginare che, come la giurisprudenza CEDU dal 2009 (v. Sentenza Sulejmanovic) è stata centrale negli sviluppi del nostro sistema nel secondo decennio degli anni 2000, così questa sentenza della Corte e tutto ciò che ne consegue sarà protagonista del decennio in corso.
Dal dibattito che fu promosso da Nicolò Amato a partire dal 1988 (ricordiamo un suo articolo apparso nelle pagine centrali di Repubblica) fino a quest’ultimo intervento della Corte, si è sviluppato senz’altro l’inquadramento del tema del diritto all’affettività per le persone in stato di detenzione in sintonia con i principi costituzionali. Questi ultimi sono stati ben delineati dal giudice rimettente e poi organicamente confermati dal giudice costituzionale, che è andato ben oltre la articolata sentenza di inammissibilità n.301 del 2012.
Cosa è accaduto dal 2012 ad oggi?
La Corte nel 2012, nel rinviare la questione all’attenzione del legislatore, affermava che il tema rappresentava “un problema che merita attenzione” e “non riteneva possibile pronunciare una sentenza additiva di principio, in quanto essa stessa sarebbe risultata espressiva di una scelta di fondo, sul tema della selezione delle persone legittimate alle visite riservate”.
Oggi invece la Corte, partendo dalla sussistenza del profilo della rilevanza della questione proposta dal giudice a quo, prende atto che una serie di norme costituzionali messe in sistema con gli articoli 3 e 8 CEDU., unite poi ad un quadro di legislazione ordinaria degli ultimi 10 anni, portano ad affermare la sussistenza del cosiddetto diritto all’attività in ambiente penitenziario.
Un primo aspetto fondamentale della sentenza è che essa ha carattere immediatamente precettivo. La Corte disegna uno scenario dove da questo momento “laddove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano e con la gradualità eventualmente necessaria” si devono creare appositi spazi per garantire i colloqui intimi/visite. Allo stesso tempo precisa che resta la possibilità di intervento del legislatore “stabilendo termini e condizioni diversi da quelli enunciati, purché idonei a garantire l’esercizio dell’attività dei detenuti, nel senso fatto proprio dalla presente pronuncia”.
Ed in questo senso la Corte prescrive che:
- a) La durata dei colloqui intimi deve essere adeguata.
- b) Le visite devono potersi svolgere con periodicità.
- c) In luoghi appropriati con le cc.dd. “unità abitative” che consentano di ricreare un ambiente domestico.
- d) A differenza della visita prolungata del detenuto minorenne ex art.19 c.3 d.lgs. N.121 del 2018, per il detenuto adulto l’incontro è ammesso solo con la persona con cui sussiste lo “stabile legame affettivo”.
- e) Quest’ultimo deve essere accertato dal direttore dell’Istituto prima di autorizzare il colloquio riservato.
- F) Devono essere favorite le visite prolungate per i detenuti che non usufruiscono di permessi premio.
Pertanto, in attesa di un intervento del legislatore che non riesco ad immaginare a breve termine, il sistema penitenziario si deve misurare ora e subito con i profili che ha disegnato il giudice costituzionale.
Innanzitutto, scopro l’acqua calda se dico della quasi totale mancanza di spazi idonei negli istituti penitenziari, sia di vecchia che di nuova generazione. Non basta dire che in tutti questi anni non c’era la norma che sanciva il diritto all’affettività, perché il problema più urgente era ed è la strutturazione degli spazi all’interno del carcere, in buona compagnia con il dramma del sovraffollamento (adesso in continua espansione) e l’assenza di risorse per reingegnerizzare gli spazi. Su tutto questo la Corte è partecipe dello “sforzo organizzativo che sarà necessario”. Richiede, come ricordato sopra, che “le condizioni materiali della singola struttura lo consentano” con “la gradualità eventualmente necessaria”.
Vedremo come questi aspetti saranno affrontati quando la magistratura di sorveglianza e l’amministrazione penitenziaria, per la sua parte, dovranno affrontare i ricorsi ex artt.35 bis e 69c.6 ord. Penit., richiamati dalla stessa Corte. Si può infatti immaginare un percorso graduale in cui alcuni istituti perverranno ad una situazione di idoneità prima di molti altri, ma nella valutazione dei ricorsi da parte del magistrato di sorveglianza bisognerà comprendere come sarà valutato il percorso adottato dall’amministrazione penitenziaria, chiamata ad affrontare questa situazione con la necessità di risorse economiche aggiuntive.
La Corte ha parlato della necessità di garantire la periodicità delle visite e la disponibilità di luoghi idonei. A quali condizioni è garantita la periodicità?
Proviamo a fare una simulazione: in un grande Istituto con 1000 detenuti, ipotizziamo che 500 detenuti si vedano riconosciuto questo diritto. Se si garantisce il servizio visite per 5 giorni a settimana, con un orario 9-16, per visite di durata dalle due alle tre ore, con la disponibilità di 5 unità abitative, si potrebbero garantire 75 visite settimanali, quindi la possibilità di una visita in media ogni due mesi per avente diritto.
Questa simulazione è molto ottimistica perché prevede la disponibilità di 5 unità abitative e soprattutto un servizio organizzato per ben 5 giorni a settimana, senza dimenticare che in parallelo si dovrà continuare a garantire il servizio colloqui. Testando la situazione reale degli istituti e valutando quel che si deve fare, è immaginabile che anche a medio termine la periodicità di cui parla la Corte sarà ben più dilatata, basti pensare a strutture come Regina Coeli o Poggioreale.
Sulla legittimazione del diritto al colloquio riservato e sulla individuazione delle persone autorizzate ad accedere chiudo queste prime considerazioni. La Corte richiama una lettura combinata dell’articolo 8, paragrafo 2 CEDU, e dell’art.1, comma 5, ord. Penit., per riaffermare il principio più volte espresso dagli anni ‘90 in poi, secondo cui c’è “un limite concreto entro il quale lo stato detentivo è in grado di giustificare una compressione della libertà”. Questo limite la Corte lo disegna attraverso le esigenze di mantenimento dell’ordine della disciplina e dei fini giudiziari indicati dall’articolo 1 c.5 Ord. Penit. e negli obiettivi di prevenzione del disordine e del crimine ex art.8, paragrafo due, CEDU., richiamati anche dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Pertanto, si potrà accedere al colloquio intimo dopo che siano stati valutati eventuale irregolarità della condotta e precedenti disciplinari, ma anche la pericolosità sociale del detenuto.
L’azione discrezionale del direttore dell’Istituto per la valutazione disciplinare e dell’autorità giudiziaria sui motivi di carattere giudiziario che ostano all’autorizzazione per gli imputati sarà sicuramente oggetto di ricorsi ex art.35 bis Ord. Penit., come ipotizza anche la Corte, ma questo assetto fa riflettere seriamente, se stiamo parlando della maturazione di un diritto pieno o se stiamo rientrando nell’ambito della funzione premiale all’interno del sistema penitenziario.
Parlare sic et simpliciter di “irregolarità della condotta e precedenti disciplinari” porta automaticamente al rischio per l’ordine e la sicurezza? Se la risposta è positiva, parliamo di una concessione premiale; ma anche i motivi di carattere giudiziario che possono essere addotti non è certo che consentano un esame da parte della magistratura di sorveglianza. Per chi ha confidenza con il mondo penitenziario, non convince il semplice lasciapassare a chi non ha precedenti disciplinari e non è socialmente pericoloso, perché qui entra in gioco la concreta possibilità del ricatto a cui il detenuto ammesso alla visita dovrà sottostare quando da un corpo all’altro possono essere “trasferite” sostanze stupefacenti o micro-telefonini destinati all’interno dell’istituto (è la realtà fattuale che ci racconta queste cose). Ciò che impatta in modo importante sull’organizzazione è il controllo di sicurezza che si riesce a garantire con l’ingresso dei familiari. Problema che sta al carcere come la chiave al cancello e che oggi, con le tecnologie attuali, può essere gestito adeguatamente e può permettere di affrontare il tema del colloquio intimo in modo più pragmatico. Se non si andrà in questa direzione si pagherà comunque un prezzo enorme sulla sicurezza e sui rischi, sia per chi vive che per chi lavora in carcere.
Da ultimo sorprende la scelta della Corte quando dichiara l’illegittimità dell’art.18 “nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o il convivente senza il controllo a vista del personale di custodia”, ribadendo nel dispositivo quel che aveva precisato dettando i profili attuativi della sua decisione: il colloquio intimo esclude la presenza di altre persone che non siano quella che ha lo “stabile legame affettivo” nei termini di cui in motivazione.
Se ci si concentra solo sul colloquio intimo come incontro dove può subentrare la sfera sessuale, quale trattamento riceverà la categoria dei “congiunti”, così come definita dall’articolo 18 ord. Penit.e poi ricondotta dall’amministrazione penitenziaria alla nozione di “prossimi congiunti” ex articolo 307 cod. pen., a partire dalla circolare n.2656/5109 del 15.1.1980?
Non si comprende se la Corte non ha indagato sul colloquio intimo tra congiunti fuori dalla sfera affettivo-sessuale o se abbia ritenuto sufficiente per tutelare il valore dell’incontro tra padre/madre e figli, soprattutto se minori, la previsione dell’art.18 c.3 ord. Penit. (“i locali destinati ai colloqui con i familiari, favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio”). Tutto questo dopo che in questi anni si è sempre parlato di un diritto all’affettività comprensivo dei rapporti tra familiari anche se non legati da rapporto more uxorio.
Su quest’ultimo aspetto è facile immaginare l’emersione di ricorsi ex art. 35 bis ord. Penit. e nuovi rinvii alla Corte per una nuova sentenza additiva sull’articolo 18.
Arriviamo a questa fase nella storia del nostro sistema penitenziario, dopo che in concreto nulla è stato fatto congiuntamente dalle istituzioni per prepararsi a quanto la Corte costituzionale prevedibilmente avrebbe prima o poi materializzato.
Oggi si è chiamati ad attuare la nuova lettura data dalla Corte, ma la presa di possesso della questione da parte del legislatore è necessaria quanto ardua per dirimere i nodi che si assommeranno tra giurisprudenza, dottrina, operatori del sistema penitenziario. Si parla di diritti della persona e di conseguente organizzazione del sistema amministrativo in un mondo penitenziario che sta vivendo una delle stagioni peggiori dal dopoguerra.