L’esperienza trattamentale nel carcere di Bollate di fronte all’onda montante del populismo penale

In un recente saggio, apparso sull’American Economic Journal, gli economisti G. Mastrobuoni e D. Terlizzese si occupano della relazione intercorrente tra condizioni del trattamento penitenziario e probabilità di recidiva, assumendo come caso di studio il carcere di Bollate. Ciò che rende particolarmente interessante la lettura di questo lavoro è l’approccio seguito: non la classica argomentazione giuridica, ma l’applicazione del metodo scientifico. L’analisi scrupolosa dei dati empirici di quella esperienza conduce ad un verdetto inequivoco, che può essere da monito per le attuali politiche in ambito penitenziario.

Il più recente dibattito politico sul trattamento dei detenuti all’interno del carcere riprende lo scontro classico in materia: quello tra ‘giustizialismo’ e ‘garantismo’. Nell’ultimo episodio della saga si pone il d.l. 162/2022, primo grande intervento del governo Meloni in materia. La Consulta, nella ordinanza 97/2021, motore primo dello stesso, aveva avanzato non pochi rilievi critici rispetto all’articolo 4-bis della legge 354/1975. Esso pone, come noto, una presunzione di pericolosità assoluta a carico dei soggetti che siano stati condannati per i reati nello stesso contemplati (i cd. reati ostativi): se i loro autori intendono chiedere misure alternative alla detenzione, devono necessariamente collaborare con la giustizia e così dimostrare che è ormai insussistente quel legame che avevano con l’organizzazione criminosa. E’ noto, altresì, come la Corte abbia deciso, in quella occasione, di dare un termine al legislatore per intervenire (entro un anno, poi prolungato di ulteriori sei mesi), al fine di modificare la disposizione in questione, facendo sì che la stessa potesse sopravvivere dinanzi al portato precettivo del nostro testo fondamentale.

Di fronte a tale sollecitazione con questo intervento si è colta l’occasione per irrigidire ulteriormente la portata dell’articolo: da un lato lo si amplia fino a ricomprendervi anche i reati ‘altri’, purché commessi al fine di ‘eseguire o occultare’ gli ostativi o che comunque ne rappresentino il ‘prezzo, prodotto, o profitto’; dall’altro, laddove la collaborazione non possa essere condicio sine qua non per la concessione dei benefici penitenziari, si richiede un giudizio prognostico decisamente arduo. La classica probatio diabolica, insomma, dal momento che devono risultare elementi ‘specifici, diversi e ulteriori’ a dimostrazione della assenza del nesso, anzi anche della impossibilità di un suo ripristino successivo, ancorando gli stessi anche al ‘contesto’ in cui il reato è stato commesso, sia sul lato personale che su quello socio-economico (v., proposito, le efficaci osservazioni di cui al documento predisposto dal Consiglio direttivo dell’Associazione tra gli studiosi del processo Penale “G.D. Pisapia” a proposito della introdotte dal d.l. 162/2022). La scelta di campo nella dicotomia è chiara: il “costo” della forzata rinuncia alla presunzione assoluta di pericolosità viene in qualche modo compensato con la introduzione di una <<prova impossibile di non pericolosità>> (1). Il superamento di una previsione che è stata “bocciata” dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo prima e dalla Corte costituzionale poi si è tradotto sostanzialmente nell’ampliamento dei confini operativi del regime speciale e nella previsione di un sistema così articolato e complesso delle condizioni alternative alla collaborazione che possono abilitare all’accesso dei benefici penitenziari tale da far sì che l’intervento del legislatore appaia sostanziarsi in un ‘percorso ad ostacoli’ per il detenuto e, prima ancora, per lo stesso interprete (2).

A tutto questo si unisce il fatto che, nonostante la scelta a favore di una politica comunque di rigore in sede penitenziaria, innumerevoli fattispecie delittuose che sono riconducibili al genus in senso lato dei reati ostativi risultano comunque in aumento sull’intero territorio nazionale: si pensi, ad esempio, alle estorsioni, cresciute del 55% dal 2012 al 2021 (3).

La domanda, a questo punto, sorge spontanea: sarà corretta la strada imboccata? E’ questo il giusto contenuto del trattamento penitenziario rispetto alle finalità poste? Un aiuto a risolvere questi dubbi può forse venire dalla lettura dell’articolo in oggetto, significativamente intitolato Leave the door open? Prison conditions and recidivism (4), specie in considerazione del metodo rigorosamente scientifico e innovativo che i due autori hanno adoperato nell’approcciarsi a un tema così lungamente dibattuto nella dottrina giuridica.

Come detto, oggetto d’interesse è il rapporto che intercorre tra le condizioni del trattamento penitenziario e la probabilità di recidiva successiva. Le scuole di pensiero al riguardo sono, appunto, due. La prima riconosce una diminuzione della recidiva solamente in presenza di condizioni particolarmente severe del trattamento penitenziario: obiettivo è la deterrenza, visto che pur di non tornare in carcere i detenuti non ricommetteranno alcun reato (è il modello del carcere chiuso, prevalente in America). La seconda, all’opposto, individua la necessità che la pena si sostanzi nella sola limitazione della libertà, senza ulteriori aggravamenti, anzi ponendo il focus sulla riduzione al minimo della alienazione dalla società (è il modello del carcere aperto, prevalente in Scandinavia).

Gli autori sottolineano come un paragone tra le due realtà risulti piuttosto difficoltoso. Esse infatti si differenziano per:

-capienza delle strutture: nel caso nordamericano fino ad un massimo di 1500 detenuti, nell’altro di 350;

-durata media della pena, rispettivamente di 3 anni e 3/6 mesi;

-spesa pubblica per detenuto, 31mila dollari contro 100mila;

-differenti criteri di selezione dei detenuti ‘meritevoli’ di essere allocati alle strutture ‘aperte’.

Se quindi un raffronto tra i due opposti modelli emblematici risulta quasi impossibile, opportuna è la scelta di indagare su un sistema sì misto, ma comunque unico: quello italiano.

Principale oggetto di studio è il carcere di Bollate (nei pressi di Milano), struttura inaugurata nel 2000, al fine di arricchire il nostro panorama nazionale di un istituto aderente al modello aperto. In che cosa consiste? La vita dei detenuti risulta “stravolta” nelle sue fondamenta: si abbandona la preponderante idea del Panopticon di Bentham, prototipo di struttura incentrata su un controllo totale degli internati, i quali vengono alienati in uno schema di comportamenti calato dall’alto. Ci si focalizza, al contrario, sul loro senso di responsabilità: il numero di ore trascorse al di fuori delle celle passa dalla media di quattro a quella di dodici; all’interno del carcere c’è libertà di movimento durante le ore diurne; il tempo viene usato in modo produttivo: si pone l’accento su attività professionalizzanti, anticipando di fatto il reintegro nel mondo del lavoro. L’intero piano di vita viene predisposto sì in primis dagli educatori, ma tenendo sempre in conto la voce dei detenuti, a cui si impone di dar spazio nel regolamento del carcere stesso.

Al fine di valutare l’efficacia di tale sistema, gli Autori raffrontano il tasso di recidiva dei detenuti nelle carceri ‘ordinarie’ del resto della Lombardia con l’istituto di Bollate. In particolare, dal momento che l’accesso allo stesso avviene su scelta del DAP, basata o sulla condotta meritoria del singolo detenuto (valutata su richiesta o di quest’ultimo o del vertice del carcere di provenienza) o su una casuale redistribuzione della popolazione carceraria al fine di alleviare il sovraffollamento degli istituti in difficoltà, termine di paragone dei detenuti ‘comuni’ sono proprio quelli che giungono a Bollate per mera casualità (se così non fosse, all’evidenza il dato risulterebbe falsato dalla buona condotta già in essere a priori).

Cosa emerge? Gli studiosi evidenziano due elementi principali.

In primis, se la recidiva nei tre anni successivi all’uscita dal carcere tocca mediamente in Italia punte del 40%, al di fuori della casa di reclusione di Bollate questo dato diminuisce di sei punti percentuali. Sembra poco? Se assumiamo la popolazione carceraria nazionale nei termini di cinquantamila unità, questo significherebbe una riduzione di tremila reati (tra i più gravi, visto che, come noto, altrimenti in carcere si entra più difficilmente).

In secondo luogo si evidenzia come la condotta appaia già tendenzialmente migliorata all’interno dell’istituto stesso (si veda Allegato 1)

Nonostante la pregnanza e l’oggettività dei dati evidenziati, gli autori si dedicano in ultimo anche a confutare le possibili mozioni contrarie che potrebbero prospettarsi.

Da un lato si potrebbe sottolineare come tale modello, se replicato sul piano nazionale, comporterebbe dei costi eccessivi. Questo è falso: il numero di atti violenti compiuti dentro le mura della struttura risulta di gran lunga inferiore alla media, così che anche il numero di poliziotti penitenziari è inferiore alla media e i costi di conseguenza.

Si veda tabella A1.

Dall’altro c’è chi potrebbe sollevare dubbi quanto all’effettività della rieducazione dei detenuti: sarà vera redenzione o calcolo opportunistico? Sia all’interno, che all’esterno del carcere, l’induzione alla buona condotta potrebbe essere determinata, da un lato, dalla volontà di evitare di tornare in quello che spesso viene definito ‘l’inferno’ del carcere comune, dall’altro, dal fatto che, ricevuta una formazione professionale, si ha più da perdere. All’evidenza tale mozione appare facilmente superabile, visto che ciò che conta è il comportamento esteriore, essendo da tempo superata la prassi del ‘processo alle intenzioni’.

In definitiva, di fronte a due vedute opposte su quello che debba essere il contenuto del trattamento penitenziario per renderlo capace di raggiungere le sue finalità, non c’è soluzione migliore che guardare ai dati offerti dall’esperienza. Se è vero che la certezza assoluta, cara agli scienziati, nel mondo del diritto non esiste, specie nel momento esecutivo della pena, affollato, come è, da una gran quantità di variabili, è altrettanto vero che il caso Bollate meriterebbe particolare attenzione.

I dati che emergono da questo studio sono univoci: come scrivono i due Autori ,‘we showed that prison conditions offered in an open prison, with meaningful training and occupational activities, aimed at improving inmates’ reintegration into society, are effective in curtailing recidivism’.

Si dovrebbe dire a questo punto che stiamo suggerendo ad un governo ‘giustizialista’, in modo puramente provocatorio, un modello ‘garantista’ fino all’estremo? No, il carcere quello è e quello rimane. I detenuti, quelli sono e quelli rimangono. Nessuno intende predisporre una sorta di via di fuga a chi, all’evidenza, pare non meritarsela. Quel che è il vero obiettivo è dimostrare come un modello capace di trattare i detenuti non come soggetti passivi, a cui imporre un regime infantilizzante, ma come esseri senzienti da coinvolgere nel percorso rieducativo in modo attivo, risulti vincente.

Il ‘giustizialismo’ all’apparenza è preferibile, nella sostanza rischia di essere un rimedio peggiore del male.

  1. R. De Vito, Finisce davvero il “fine pena mai”? Riflessioni e interrogativi sul decreto legge che riscrive il 4-bis, in questionegiustizia.it
  2. F. Gianfilippi, Il dl 162/2022 e il nuovo 4-bis: un percorso a ostacoli per il condannato e per l’interprete, in Giustizia Insieme, 2022
  3. Secondo I dati pubblicati dal Censis il 3 dicembre 2021, consultabili su https://www.censis.it

  4. G. Mastrobuoni – D. Terlizzese, 2022, Leave the door open? Prison conditions and recidivism, in American Economic Journal: Applied Economics14 (4): 200-233

a cura di Michelangelo Taglioli (Università di Pisa)

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