Ai sensi dell’art. 37 reg. esec. ord. pen. i colloqui con «persone diverse dai congiunti e dai conviventi» sono autorizzati quando ricorrono «ragionevoli motivi», invece il colloquio del convivente del detenuto è parificato a quello con i congiunti ed è autorizzato dal direttore dell’istituto penitenziario in via ordinaria e senza alcun accertamento in merito alle motivazioni sottostanti.
La circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria n. 3478/1998 forniva un’ampia interpretazione della nozione di «convivente» ricomprendendovi «tutti coloro che coabitavano col detenuto prima della carcerazione, senza attribuire alcuna rilevanza all’identità del sesso o alla tipologia dei rapporti concretamente intrattenuti con il detenuto medesimo (more uxorio, di amicizia, di collaborazione domestica, di lavoro alla pari, ecc.)».
Interveniva poi l’art. 1, co. 38, della legge n. 76/2016, recante «regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze», che ha testualmente equiparato il convivente di fatto al coniuge del detenuto «nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario».
Secondo la Suprema Corte di Cassazione, il predetto art. 1, co. 38, al pari delle disposizioni immediatamente successive al co. 38, pare destinato a estendere al solo convivente di fatto del diretto interessato determinati diritti propri del coniuge, senza incidere sulla complessiva disciplina civilistica delle relazioni familiari.
Peraltro, hanno osservato gli Ermellini, la delega legislativa in materia non aveva apportato alcuna modifica dell’ordinamento penitenziario, limitandosi ad adeguare alcune disposizioni dell’ordinamento penale, quindi equiparando ai coniugi le due parti di un’unione civile regolata dalla legge n. 76/2016, senza prevedere alcunché in relazione ai conviventi di fatto.
Conclusivamente, per la giurisprudenza di legittimità deve “escludersi che l’equiparazione tra la posizione della parte dell’unione civile al coniuge e tra il coniuge e il convivente del detenuto possa estendersi oltre tale ambito, a realizzare una surrettizia modifica della nozione giuridica di affinità e, dunque, a ricomprendere anche le relazioni di coppia del familiare del detenuto. Ne consegue, pertanto, che l’esigenza del detenuto di coltivare legami con soggetti non facenti parte del suo nucleo familiare inteso in senso stretto potrà essere soddisfatta attraverso una espressa autorizzazione da parte della direzione dell’istituto quando ricorrano «ragionevoli motivi»; ovvero, nel caso di detenuti
sottoposti al regime dell’art. 41-bis Ord. pen., quando vi siano ragioni «eccezionali», apprezzate «volta per volta dal direttore dell’istituto», secondo la previsione del comma 2-quater, lett. b), dello stesso art. 41-bis Ord. pen.”.
A cura di Beatrice Paoletti