Con la sentenza in oggetto, la Suprema Corte è stata chiamata ad affrontare, ancora una volta, il tema della riparazione per ingiusta detenzione in sede esecutiva. Ancora di recente, la questione è stata sottoposta all’attenzione della Corte, con riguardo, però, al profilo della (ir)retroattività della disciplina penitenziaria nel contesto delle preclusioni introdotte dalla c.d. legge “Spazzacorrotti” (Cass., sez. IV, n. 9721/2022, in precedenza commentata su questo sito: si veda a tal proposito “La riparazione per ingiusta detenzione e la irretroattività della disciplina penitenziaria nel contesto delle preclusioni introdotte dalla c.d. legge spazzacorrotti“). Nel caso di specie, i giudici di legittimità sono a chiamati a decidere su un ricorso presentato contro la decisione con la quale la corte d’appello di Roma aveva rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione che era stata avanzata dal ricorrente per aver subito un totale di 722 giorni di carcerazione in più rispetto alla pena che era stata determinata nel provvedimento di cumulo predisposto successivamente dal pubblico ministero e nel quale era stato computato un periodo di 1215 giorni di liberazione anticipata che nel frattempo era stata concessa al condannato. I giudici di Roma avevano motivato la decisione di rigetto sul rilievo che non debba spettare il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione quando il difetto di corrispondenza fra pena inflitta e pena eseguita sia riconducibile a vicende successive alla condanna, connesse alla esecuzione della pena. Proprio sotto questo profilo, a parere della difesa, la decisione della corte territoriale risulterebbe affetta, però, da vizio di motivazione per essere stata fatta applicazione di un principio inconferente al caso di specie. La differenza fra pena inflitta e pena eseguita deriverebbe, infatti, da un calcolo errato, in violazione dell’art. 78 c.p., avvenuto nel periodo di esecuzione della pena e vi sarebbe stato tutto il tempo per stabilire un fine pena corretto, che avrebbe escluso il ricorso all’art. 314 c.p.p.
Nel decidere sull’istanza, i giudici di legittimità procedono, anzitutto, a un breve excursus storico, dando conto degli orientamenti interpretativi che sono seguiti alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 314 c.p.p. nella parte in cui non prevede(va) il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione (C. cost. 310/1996). In ordine alla identificazione dei presupposti per il riconoscimento di quel diritto, era prevalso in un primo momento, infatti, un indirizzo restrittivo, alla luce del quale si riteneva di escludere il diritto all’equa riparazione in tutti i casi in cui la mancata corrispondenza tra pena inflitta e pena eseguita conseguisse a vicende posteriori alla condanna che riguardassero la determinazione della pena eseguibile (v. Cass., sez. IV, 23/04/2015, n. 40949, D’Agui). Tale principio era stato affermato proprio in relazione a una fattispecie che vedeva il ricorrente ammesso al beneficio della liberazione anticipata, con riduzione della pena originariamente inflitta e conseguente eccedenza della detenzione concretamente subita. Tale orientamento si fondava, a sua volta, su una lettura restrittiva della sentenza della Corte Cost. n. 219 del 2008 con la quale era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 314 c.p.p. nella parte in cui condizionava il diritto all’equa riparazione al proscioglimento nel merito dalle imputazioni, ritenendo che, in quella sede, in definitiva, il giudice delle leggi avesse legittimato le soluzioni offerte dal giudice di legittimità con riferimento ai soli casi di reati prescritti o di amnistia o di remissione di querela.
A questo primo indirizzo ha fatto seguito, però, un orientamento di segno opposto, che ha avuto origine da una decisione relativa a un’ipotesi nella quale il ricorrente aveva subito un periodo di detenzione eccedente quello risultante dalla applicazione della liberazione anticipata perché l’ordine di esecuzione non era stato aggiornato al nuovo fine pena. In quella occasione, i giudici di legittimità ebbero modo di rilevare, infatti, come la Corte costituzionale, con la sent. 310/1996, abbia evidenziato che “la diversità della situazione di chi abbia subito la detenzione a causa di una misura cautelare, che in prosieguo sia risultata ingiusta, rispetto a quella di chi sia rimasto vittima di un ordine di esecuzione arbitrario non è tale da giustificare un trattamento cosi discriminatorio, al punto che la prima situazione venga qualificata ingiusta e meritevole di equa riparazione e la seconda venga invece dal legislatore completamente ignorata. Si è quindi ritenuto che la tardiva esecuzione dell’ordine di scarcerazione disposta per liberazione anticipata determini l’ingiustizia della detenzione sofferta fino alla concreta liberazione del detenuto e, pertanto, costituisca titolo per la domanda di riparazione (Cass., sez. IV, 14/01/2014, n. 18542, Truzzi). Le argomentazioni a sostegno dell’indirizzo meno restrittivo, però, non si fermano qui. Viene rilevato, in primo luogo, come diversamente argomentando, si finisca infatti per inopinatamente far coincidere il piano della irrevocabilità della condanna con quello della definitività della pena: un’operazione interpretativa che non può ritenersi consentita, se solo si consideri come il vigente sistema processuale attribuisca grande spazio agli interventi del giudice dell’esecuzione e della magistratura di sorveglianza sul trattamento sanzionatorio. Ciò che deve indurre a considerare come assolutamente non sovrapponibili i concetti di pena definita da pronuncia irrevocabile e quello di pena definitiva (per tale potendosi intendere solo quella determinata all’esito della complessiva gestione giudiziale del trattamento sanzionatorio) (Cass., sez.IV, 21/09/2017, 57203).
Un ulteriore argomento a sostegno di questo indirizzo, infine, è tratto direttamente dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. In un caso in cui è stata ritenuta ingiusta una detenzione che, per effetto della riconosciuta liberazione anticipata, era rimasta sine titulo (Cedu, sentenza 24 marzo 2015, Messina c. Italia, causa n. 39824/07), i giudici di Strasburgo sono partiti dall’assunto secondo cui articolo 5 § 1 a) della Convenzione non sancisce, in quanto tale, il diritto per un condannato, ad esempio, di beneficiare di una legge di amnistia o di una liberazione anticipata condizionale o definitiva”. Tuttavia, “potrebbe essere diverso quando i giudici nazionali sono tenuti, in assenza di un qualsiasi potere discrezionale, ad applicare una tale misura a chiunque soddisfi le condizioni stabilite dalla legge per beneficiarne” (una conclusione, questa, ormai consolidate nella giurisprudenza della Corte europea: v. Grava c. Italia, n. 43522/98, § 43, 10 luglio 2003; Pilla c. Italia, n. 64088/00, § 41, 2 marzo 2006; Sahin Karatas c. Turchia, n. 16110/03, § 35, 17 giugno 2008; Del Rio Prada c. Spagna [GC], n. 42750/09, 21 ottobre 2013). Ebbene, ai sensi dell’art. 54 l. 54/1975 e conformemente alla giurisprudenza della Corte di cassazione in materia, le autorità competenti godono di un margine di apprezzamento al fine di stabilire se un detenuto abbia soddisfatto i criteri di buona condotta e di partecipazione ai programmi di reinserimento e se la sua adesione a tali programmi non sia puramente fittizia o non miri esclusivamente alla concessione di benefici come la liberazione anticipata”. E’ anche vero, però, che “questa libertà di valutazione non è priva di limiti e ciascuna decisione deve essere debitamente motivata in diritto e in fatto”. La conseguenza, dunque, è che, “quando le condizioni sono soddisfatte, le autorità giudiziarie devono accordare la liberazione anticipata nella misura stabilita dalla legge”. Da ciò non può che derivare, a parere della Corte europea, una violazione dell’art. 5 § 1 a) Conv., perché il ricorrente aveva espiato una pena di durata superiore a quella che avrebbe dovuto scontare secondo il sistema giuridico nazionale, tenuto conto dei periodi di liberazione anticipata alla quale aveva diritto (e in un primo tempo negategli per un errore nelle annotazioni del certificato del casellario giudiziale).
Fermo restando, dunque, che il diritto all’indennizzo viene comunque meno quando sia dato di riscontrare un comportamento doloso o gravemente colposo da parte del condannato che sia stata concausa di errori o ritardi nell’emissione del nuovo ordine di esecuzione, la Corte ribadisce con la decisione in esame l’assunto secondo cui “anche le vicende della fase dell’esecuzione della pena rilevano ai fini della applicabilità dell’istituto disciplinato dall’art. 314 c.p.p., sempre che da esse derivi una ingiustizia della detenzione patita. Una ingiustizia che si innesta su un errore dell’autorità procedente: errore che, per definizione, non può mai rinvenirsi nell’esercizio di un potere di apprezzamento discrezionale e che quindi va ricercato nelle eventuali violazioni di legge”
(Cass., sez. IV, 212/09/2017, cit.).
a cura di Diletta Niccoli