1.Per comprendere appieno l’importanza della pronuncia oggetto, è necessario richiamare, seppure brevemente, il contesto normativo di riferimento. Il d.l. 152/1991, convertito con modifiche nella l. 203/1991, ebbe a introdurre nella l. n. 354/1975 – come è noto – gli artt. 4 bis e 58 ter, rendendo più difficoltoso l’accesso ai benefici penitenziari per i soggetti condannati per particolari delitti (compresi nell’odierno art. 4 bis, co. 1, o. p.) che non collaborassero con la giustizia. L’art. 4 del suindicato decreto conteneva, altresì, disposizioni intertemporali, espressamente prevedendo che le disposizioni di cui all’art. 2 co. 2 si applicassero esclusivamente nei confronti dei condannati per delitti commessi dopo la data di entrata in vigore del decreto. Ciò permise agli operatori del diritto, ed alla magistratura in particolare, di interpretare a contrario la restante disciplina prevista all’art. 2 co. 1, mediante l’applicazione retroattiva del nuovo regime ostativo, ancorché maggiormente afflittiva.
Successivamente, il d.l. 306/1992 dispose, per la prima volta, che ai soggetti condannati per i delitti elencati nell’art. 4 bis co. 1 o. p. fosse precluso l’accesso ai benefici penitenziari (con l’unica eccezione della liberazione anticipata), salvo che collaborassero con la giustizia. La previsione contenuta nell’art. 58 ter venne così a subire una vera e propria <<metamorfosi funzionale>> (v. A. Bernasconi, La collaborazione processuale, Milano, 1995, 115), la collaborazione diventando, di fatto, la condizione ineludibile per poter scontare la pena in regime diverso da quello carcerario. Non solo, ma l’art. 15 co. 2 del decreto suindicato aveva espressamente previsto l’applicabilità retroattiva della nuova disciplina, prescrivendo l’obbligo di revocare le misure alternative alla detenzione e i permessi premio già concessi a chi, alla data di entrata in vigore del decreto, non avesse collaborato con la giustizia. Sul punto ha avuto, peraltro, modo di intervenire la Corte Costituzionale che, con la sentenza 306/1993, ha dichiarato la illegittimità costituzionale della norma, nella parte in cui, per l’appunto, prevedeva la revoca di misure alternative e di permessi premio già concessi.
2.La ragione per la quale la giurisprudenza ha tradizionalmente riconosciuto efficacia retroattiva anche previsioni sopravvenute che di fatto introducano un reme penitenziario più sfavorevole alla persona condannata è da ricondurre al principio secondo il quale le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, per cui non hanno il carattere di norme penali sostanziali e, in assenza di specifica disciplina transitoria, soggiacciono al principio tempus regit actum e non alle regole dettate dagli artt. 25 Cost. e 2 c.p. in tema di successione di norme penali del tempo, con conseguente immediata applicabilità di eventuali modifiche normative di segno peggiorativo a tutti i rapporti esecutivi non ancora esauriti (v., tra le altre, Cass., Sez. Un., n. 24561 del 17.7.2006; Cass. pen., Sez. I, n. 25113 del 20.7.2006; Cass. pen., Sez. I, n. 29508 del 1.9.2006; Cass. pen., Sez. I, n. 33062 del 4.10.2006; Cass. pen., Sez. I, n. 46649 del 3.12.2009; Cass. pen., Sez. I, n. 11580 del 12.3.2013; Cass. pen., Sez. I, n. 52578 del 18.12.2014; Cass. pen., Sez. I, n. 18496 del 27.4.2018).
3.Il problema della retroattività delle norme relative all’esecuzione della pena si è posto, nuovamente e con maggiore allarme, all’indomani dell’entrata in vigore della l. 3/2019 (cd. “Spazzacorrotti”) che, all’art. 1, comma 6, lettera b), ha previsto l’inserimento di alcuni reati contro la Pubblica Amministrazione (quelli disciplinati dagli artt. 314, co. 1, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater, co. 1, 320, 321, 322, 322 bis c.p.) nel novero di quelli elencati nell’art. 4 bis co. 1 o. p. per i quali è previsto il regime ostativo sopra analizzato. Ciò ha determinato conseguenze devastanti per tutti quei soggetti che, avendo commesso un reato prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina (quando il delitto commesso rientrava tra i reati comuni), erano certi di poter beneficiare della sospensione dell’ordine di carcerazione (ai sensi dell’art. 656 co. 5 c.p.p.) e, dunque, di poter evitare l’ingresso in carcere e di poter scontare la propria pena in un regime diverso da quello detentivo, e che, invece, rientravano improvvisamente nell’ostatività prevista dall’art. 656 co. 9 c.p.p. In sostanza, la novella legislativa, nel modificare il dettato dell’art. 4 bis o.p., ha inciso sulla natura della pena non più espiabile in regime diverso da quello carcerario se non attraverso la collaborazione con la giustizia (intesa anche come collaborazione impossibile, inesigibile o irrilevante, ai sensi dell’art. 4 bis, co. 1 bis o.p.).
Per tale ragione, con ordinanza dell’8 aprile 2019, il Tribunale di sorveglianza di Venezia (a cui sono stati riuniti altri 11 ricorsi di Autorità giudiziarie diverse) ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della l. 3/2019 – per violazione degli agli artt. 3, 25 co. 2, 27 co. 3, e 117 co. 1 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – nella parte in cui si applica anche in relazione ai delitti di cui agli artt. 318, 319, 319-quater e 321 c.p., commessi anteriormente all’entrata in vigore della medesima legge.
La Corte Costituzionale (con sentenza n. 32 del 12-26.2.2020, Pres. Cartabia, Rel. Viganò), in accoglimento dei ricorsi, dopo avere premesso che il diritto vivente ritiene che le norme disciplinanti l’esecuzione della pena siano in radice sottratte al divieto di applicazione retroattiva che discende dal principio di legalità della pena di cui all’art. 25, co. 2, Cost., ha concluso che “plurime e convergenti ragioni inducono, tuttavia, a dubitare della persistente compatibilità di tale diritto vivente con i principi costituzionali (infra 4.2.)” e che “le pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione, salvo però che tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale. In questa ipotesi, l’applicazione retroattiva di una tale legge è incompatibile con l’art. 25, co. 2, Cost.”
“Ciò si verifica, paradigmaticamente, allorché al momento del fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita “fuori” dal carcere, la quale – per effetto di una modifica normativa sopravvenuta al fatto – divenga una pena che, pur non mutando formalmente il proprio nomen iuris, va eseguita di norma “dentro” il carcere. Tra il “fuori” e il “dentro” la differenza è radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa. La pena da scontare diventa qui un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto; con conseguente inammissibilità di un’applicazione retroattiva di una tale modifica normativa, al metro dell’art. 25, secondo comma, Cost”.
4.L’ambito di applicazione del principio suindicato è stato esteso con la sentenza n. 193/2020 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la analoga questione di legittimità costituzionale sollevata, però, con riferimento all’introduzione nell’art. 4 bis o.p. di fattispecie relative al contrasto all’immigrazione clandestina, avvenuta con il d.l. 7/2015, in quanto, con la sentenza n. 32 del 2020, emessa dalla Corte Costituzionale, deve ritenersi “modificato il principio espresso dal diritto vivente relativo al regime intertemporale delle modifiche normative che inseriscano nuovi reati nel catalogo dell’art. 4 bis comma 1 ord. penit.”. Il principio di irretroattività della norma meno favorevole al reo deve, dunque, applicarsi non solo alla legge c.d. Spazzacorrotti, ma a tutte le norme relative all’esecuzione della pena che assumano una connotazione sostanziale, e non meramente processuale, finendo con incidere sulla natura della stessa e sulla libertà personale del soggetto chiamato a scontarla.
5.Chiarito il contesto normativo di riferimento e le evoluzioni giurisprudenziali sul tema, è più semplice comprendere l’importanza dell’ordinanza in commento, con la quale il Tribunale di sorveglianza di Bologna, in applicazione dei principi costituzionali suesposti, ha dichiarato non luogo a provvedere per carenza di interesse, sull’istanza di accertamento della inesigibilità della collaborazione con la giustizia, avanzata dall’istante ai sensi dell’art. 58 ter ord. pen., accogliendo la tesi (prospettata dall’avv. Veronica Manca del Foro di Trento e dall’avv. Pina Di Credico del Foro di Reggio Emilia) della irretroattività del disposto di cui all’art. 4 bis o.p., laddove prevede la collaborazione come condizione di accesso ai benefici penitenziari.
In particolare, l’istante, che sta scontando la pena dell’ergastolo – assorbente le pene temporanee inflitte per gli altri reati, sia comuni sia ostativi di prima fascia – in forza del provvedimento di cumulo che unifica 12 sentenze di condanna per i reati di duplice omicidio in concorso commesso ad agosto 1991 e violazione legge armi, con contestazione di aggravante mafiosa ex art. 7 d.l. 151/1991 convertito in l. 203/1991, omicidio commesso il 26.11.1991 con la connessa violazione della legge armi (24 anni di reclusione), omicidio, sequestro di persona e violazione legge armi commessi a settembre 1991 (22 anni di reclusione), favoreggiamento personale (novembre 1984), ricettazione e violazione in materia di stupefacenti (aprile 1985), ricettazione e detenzione illegale di armi (1986), contravvenzione al foglio di via obbligatorio, associazione a delinquere, danneggiamento aggravato, violazione legge armi (marzo 1992), estorsione tentata e finalizzata alla produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti (marzo 1993), non ha mai collaborato con la giustizia ed ha, pertanto, promosso il procedimento per l’accertamento dell’inesigibilità/impossibilità della propria collaborazione con la giustizia strumentalmente diretto ad ottenere l’ammissione alla semilibertà; in via subordinata ha proposto sollevarsi questione di legittimità costituzionale degli artt. 4 bis e 58 ter o.p. in ordine all’applicazione retroattiva della novella normativa dell’art. 4 bis o.p., introdotta dal d.l. 306/1992 convertito in l. n. 356/1992 che ha subordinato l’accesso ai benefici penitenziari alla collaborazione con la giustizia.
Il Tribunale ha chiarito che il regime della presunzione assoluta di pericolosità sociale che, in assenza delle condotte collaborative, impedisce al condannato di ottenere i benefici penitenziari ha prodotto effetti sostanziali in ordine alla possibilità di accedere alle misure alternative per l’espiazione della pena afferente a reati ostativi di prima fascia modificandone gli elementi costituivi ed assumendo rilievo, in negativo, anche sotto l’aspetto della funzione rieducativa o trattamentale di tale istituto.
Per tale ragione il Collegio giudicante, applicando i principi di diritto sanciti dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 32 del 2020 e n. 193 del 2020, ha escluso l’applicazione retroattiva della preclusione contenuta nell’art. 4 bis o.p.
6.Dopo trent’anni, il tribunale di sorveglianza di Bologna, sebbene “indirizzato” dalla Corte Costituzionale, ha fornito una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina contenuta nel d.l. 306/1992, che ha introdotto l’art. 4 bis o.p., chiarendo che “spetta ai giudici il compito di definite l’ambito di applicazione in sede esecutiva di quelle norma che, nel disciplinare la punibilità ed il trattamento punitivo del condannato, incidono sulla qualità della pena da espiare, e proporre così una interpretazione conforme ai principi costituzionali [..] accedendo all’interpretazione qui ritenuta conforme a Costituzione, una norma penale deve porre ciascuno nella condizione di orientare il proprio comportamento e così di sapere a priori cosa è vietato, e soprattutto, quale potrà essere il trattamento sanzionatorio che conseguirà ad un determinato comportamento […] Da qui l’ineludibile conseguenza che la disposizione normativa si applichi solo nei confronti dei condannati per delitti commessi dopo la data di entrata in vigore della legge, in attuazione del principio di irretroattività di cui all’art. 25 Cost., coerentemente con gli altri principi di proporzione ed individualizzazione della pena”.
Resta solo l’amarezza per tutti coloro ai quali, in questi lunghissimi trent’anni, è stata applicata retroattivamente una norma incostituzionale ed ai quali sono stati negati diritti inerenti alla libertà personale che l’Avvocatura invocava in nome di principi costituzionali puntualmente calpestati.
Quì il testo della decisione
Sabina Coppola (Avvocato del Foro di Napoli, consigliere Ass. Piero Calamandrei di Napoli)