La Cassazione conferma che “solo gli arredi fissi vanno scomputati dalla valutazione dello spazio individuale minimo” (Cass., Sez. I°, n. 18681/2022 del 11 maggio 2022)

Con la sentenza ivi in oggetto, la Corte di Cassazione torna ad occuparsi della questione dei famosi (rectius: “famigerati”) tre metri quadrati di spazio all’interno della cella del detenuto e dei criteri di calcolo degli stessi al fine di accertare l’eventuale violazione dell’art. 3 CEDU.

In particolare, la Prima Sezione conferma l’orientamento espresso nelle Sezioni Unite Commisso (SS. UU. 6551/2020), secondo le quali « nella valutazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati (…) si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento nella cella e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello». Nel caso di specie, all’interno dell’ordinanza oggetto di ricorso, il Tribunale di Sorveglianza non aveva tenuto in considerazione (e la Corte precisa, al punto n. 5 della motivazione, che il dato neppure emergeva dagli atti) se il letto la cui computabilità era in discussione fosse fissato al suolo o mobile, con violazione del principio espresso dalla più alta giurisprudenza di legittimità e dalla Corte di Strasburgo.

E’, dunque, la “possibilità di movimento” all’interno dello spazio vitale a costituire la misura della umanità (o disumanità) della detenzione inflitta, e non la sua “vivibilità complessiva”.

Questa affermazione di principio costituisce, senz’altro, un atto di concretizzazione del diritto umano alla dignità e di responsabilizzazione dell’Amministrazione Penitenziaria da parte dei giudici, in quanto è fissato un discrimine tra rispetto e violazione dell’art. 3 CEDU ben più concreto rispetto a una valutazione generica della condizione necessaria per un’esistenza più umana, per quanto si possa ritenere umana la condizione di detenuto. In altre parole, prendere come riferimento la “movibilità” del recluso nella cella permette di eliminare giudizi discrezionali dannosi per la certezza del diritto, criterio di massima importanza soprattutto quando vengono in ballo diritti fondamentali.

Dunque, la predetta “movibilità” è ridotta a causa della presenza di strutture od oggetti che non possono muoversi perché strutturalmente fissi, fissati al suolo o aventi una capacità di ingombro tale da non poter essere spostati facilmente: afferma la Corte che «la superficie destinata al movimento nella cella è limitata dalle pareti nonchè dagli arredi che non si possono in alcun modo spostare e che, quindi, fungono da parete o costituiscono uno spazio inaccessibile». A tal proposito, gli Ermellini richiamano ancora la giurisprudenza CEDU e il suo appoggiarsi nell’argomentare al termine “mobile” e alla sua etimologia, la quale indica, per l’appunto, un oggetto “che può essere mosso” da un punto all’altro della cella.

Proprio “nella” cella, luogo di reclusione per eccellenza, il soggetto detenuto può muoversi: egli può spostarsi soltanto al suo interno, senza poter uscire, transitare e in seguito rientrare liberamente, se non nei casi preventivamente determinati. Ciò costituisce la differenza fondamentale rispetto ai soggetti che, invece, detenuti non sono: essi «dimorano tranquillamente in stanze nelle quali la superficie pro-capite è inferiore a quella stabilita dalla sentenza e, prima ancora, dalla giurisprudenza della Corte EDU, ma hanno la possibilità di uscire da quella stanza e di muoversi liberamente nell’abitazione e fuori dall’abitazione. Se, invece, la camera è una cella nella quale il detenuto è obbligato a rimanere per un lungo periodo di tempo senza poter uscire, la possibilità di movimento, il poter compiere alcuni passi per spostarsi, diventa vitale, rilevantissimo e la relativa impossibilità rischia di essere intollerabile, degradante e inumana».

Su quanto affermato sino ad ora si innesta la riflessione che concerne la possibilità di utilizzare un letto singolo (non a castello) non soltanto per il riposo, ma anche per attività che possono svolgersi sopra di esso, non diminuendo – anzi, auspicabilmente, aumentando – la vivibilità complessiva della cella: ebbene, ciò non rileva ai fini del computo, in quanto il solo discriminante a venire in rilievo è la predetta fissità degli arredi e la possibilità del recluso di muoversi nello spazio da essi occupato. Afferma la Corte che «la considerazione secondo cui il letto singolo può essere utilizzato per finalità ulteriori rispetto al riposo (leggere, giocare a carte, parlare ecc.), a differenza del letto a castello, non rileva per la decisione in punto di sovraffollamento. Se il letto singolo è ancorato al suolo – non è, cioè, mobile – i detenuti all’interno della cella non possono utilizzare lo spazio dallo stesso occupato per camminare e per spostarsi; se, invece, non è ancorato al suolo, c’è la possibilità di spostarlo durante il giorno per specifiche necessità, al pari delle sedie e di tavolini, e, quindi, di utilizzare il relativo spazio».

Del resto, è vero che già il fatto di poter utilizzare lo spazio occupato da un mobile – seppur a diversi fini – implica anche la possibilità di muoversi sopra o sotto ad esso: ciò che rileverebbe in questo caso, sarebbe, allora, non tanto l’area occupata in maniera fissa o mobile, quanto il volume dell’ingombro, essendo il “movimento” una attività che si svolge tridimensionalmente e non bidimensionalmente. Inoltre, occorrerebbe tenere conto anche dello spazio da terra occupato (più l’arredo è alto – o lungo, se fissato al soffitto – più lo spazio per muoversi è ridotto) e dell’altezza della cella.

E’ altresì vero, tuttavia, che l’istanza di certezza del diritto a fronte di un tema vivo sin dai tempi delle sentenze Sulejmanovic e Torreggiani e presente nella gran parte dei Paesi europei e del mondo intero costringe i giudici nazionali e sovranazionali ad approdi ermeneutici più semplici e immediati possibile, i quali si pongono comunque nell’ottica del più ampio rispetto dei diritti fondamentali del soggetto detenuto.

Quì la sentenza

Guglielmo Sacco

Contributi simili

La mancata corrispondenza tra pena inflitta e pena eseguita può fondare il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione in executivis (Cass., sez. V, 30/6/2022, n.28452)

I giudici di legittimità hanno affermato il seguente principio: è da riconoscersi il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione ex art. 314 c.p.p. anche nei casi di mancata corrispondenza tra pena inflitta e pena eseguita; tale diritto sussiste, infatti, anche ove l'ingiusta detenzione patita derivi da vicende successive alla condanna, connesse all'esecuzione della pena, purché́ non ricorra un comportamento doloso o gravemente colposo dell'interessato che sia stato concausa dell'errore o del ritardo nell'emissione del nuovo ordine di esecuzione recante la corretta data del termine di espiazione della pena.…

Leggi tutto...

30 Agosto 2022

Ergastolo ostativo e permessi premio: le risposte della Magistratura di Sorveglianza nelle more della riforma parlamentare

In attesa della tanto contesa riforma parlamentare, in limine con il termine dato dalla Corte costituzionale al Parlamento, la Magistratura di sorveglianza prosegue il proprio operato, cercando di applicare i criteri interpretativi della sentenza n. 253 del 2019 in materia di permessi premio ai condannati alla pena dell’ergastolo, in assenza di collaborazione con la giustizia.…

Leggi tutto...

4 Maggio 2022

Sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, co. 2-quater, lett. e)

Cass. Pen., Sez. I, ord., 21 maggio 2021, n. 20338. Con la presente ordinanza la Corte di Cassazione ha sollevato, circa gli artt. 3, 15, 24, 111 e 117 Cost., e art. 6 CEDU, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), legge 26 luglio 1975, n. 354 laddove stabilisce “la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza”. La Corte precisa come da tale affermazione ne discende che “per i detenuti sottoposti al più rigoroso regime detentivo, il visto di censura deve essere apposto anche con riferimento alla corrispondenza intercorsa con i soggetti indicati all'art. 103, comma 5, cod. proc. pen. (difensori, investigatori privati, consulenti tecnici e loro ausiliari)”.…

Leggi tutto...

28 Settembre 2021

Carceri, la perenne sconfitta

Si segnala l’articolo e il podcast di Conchita Sannino apparso su La Repubblica il 29 dicembre scorso, in cui viene analizzata la complessa e difficile situazione carceraria nei due anni dell’emergenza pandemica, le storture che non si sono riuscite a sanare, le violenze e le sconfitte della gestione.…

Leggi tutto...

1 Gennaio 2022

Il rifiuto opposto a una persona reclusa in un carcere di massima sicurezza (Diyarbakır high-security prison), che aveva chiesto di poter organizzare le preghiere collettive del venerdì (jumuah) e di parteciparvi, integra una violazione dell’art. 9 (freedom of religion) della Convenzione Edu. Nell’affare Abdullah Yalçın (n° 2) c. Türkiye (no 34417/10), La Corte europea dei diritti dell’uomo condanna unanimously la Turchia.

La Corte ha ritenuto che le autorità turche non siano riuscite a trovare a fair balance fra gli interessi che si contrapponevano in questa vicenda, cioè, da una parte, security and order in prison e, dall’altra, the applicant’s right to freedom of collective worship. In particolare, i giudici di Strasburgo rimproverano all’amministrazione penitenziaria di aver omesso an individualised assessment of the case - così da verificare, per esempio, se il ricorrente fosse o meno a high-risk inmate o se un assembramento di detenuti per la preghiera del venerdì would pose any more of a security risk than their gathering for other activities - nonché di aver rinunciato a esplorare la praticabilità di altre soluzioni per l’individuazione di locali adatti a soddisfare la richiesta avanzata dal detenuto.…

Leggi tutto...

16 Giugno 2022

Ancora una decisione della Suprema corte in tema di (in)eseguibilità del mandato di arresto europeo a fronte del rischio di condizioni disumane nello Stato emittente (Cass., sez. f., 1/9/2022, n. 32431)

Come affermato da tempo dalla Corte di Giustizia, i giudici nazionali sono anche giudici del diritto dell’Unione e, dunque, spetta ad essi provvedere all’applicazione a livello interno del diritto sovranazionale, assicurandone l’effettività. Questa affermazione vale anche per gli strumenti di cooperazione giudiziaria, quali, in particolare, il mandato d’arresto europeo. E’ in questo contesto che si colloca la presente decisione con cui la Corte di cassazione prende nuovamente posizione in tema di esecuzione a fronte di possibili violazioni del divieto di tortura e trattamenti inumani cui potrebbe andare incontro il soggetto consegnando nel caso in cui venisse trasferito nello Stato di emissione.…

Leggi tutto...

19 Settembre 2022

Torna in cima Newsletter